Israele e il Libano, un dialogo online

Capita, navigando abitualmente sul web e interloquendo con molte persone, di essere sollecitati alla riflessione da domande stimolanti, fatte da chi chiede di capire, anche avendo opinioni diverse e non necessariamente coincidenti con le proprie. Ibrahim Osmani, libanese di nascita ma italiano di adozione, sulla scorta di una conversazione fatta su Facebook, riguardo a due film israeliani che parlano in qualche modo della sua terra natale, Valzer con Bashir, di Ari Folman (2008), e Lebanon di Samuel Maoz (2009), mi ha chiesto se «è una pura coincidenza che due film, usciti a poca distanza l’uno dall’altro, parlino tutti e due dello stesso tema?», domandandomi poi se «il Libano è molto presente nella cultura “popolare” israeliana oppure è un tema da pacifisti intellettuali? Sono molto incuriosito da questo fatto». Non sono israeliano e non voglio arrogarmi il diritto ad una risposta definitiva ma ho provato a sintetizzare un piccolo decalogo di idee al riguardo che ho raccolto, per comodità, in questo modo:
1. per Israele la campagna militare del 1982 è stata, in termini geostrategici, la prima guerra non strettamente difensiva bensì offensiva, ovvero intrapresa non per una minaccia militare diretta e immediata, costituita da un esercito straniero, bensì in ragione del ripetuto stillicidio di tensioni e provocazioni, ovvero per a causa del perdurare di una forte pressione ai confini settentrionali, esercitata perlopiù dai gruppi di miliziani allora legati all’Olp di Yasser Arafat;
2. da ciò è derivato il carattere non convenzionale di tale impresa bellica, ponendo l’esercito nella difficile posizione di dovere contrastare una guerriglia tanto diffusa quanto mobile e flessibile. Si è trattata di una operazione ai limiti dell’azzardo: Israele, di prassi, vince al primo strike, ma rischia di perdere nei conflitti di logoramento;
3. infatti, quella che nelle intenzioni doveva essere una Blitzkrieg, un «conflitto lampo», che avrebbe mutato gli equilibri politici libanesi a favore dei cristiano maroniti, rappresentati dal partito falangista della famiglia Gemayel, e spinto l’Olp a nord di Beirut, si tramutò ben presto in una guerra di lunga durata, basata sull’occupazione militare dei territori sotto sovranità libanese;
4 .la scelta di privilegiare i falangisti come interlocutori si rivelò politicamente non premiante, trascinando esercito e politici israeliani nel ginepraio delle alleanze e delle conflittualità locali;
5. la presenza militare israeliana, nel sud del paese, dovette confrontarsi sempre di più con la crescita della rappresentanza politica degli sciiti, la parte più svantaggiata del paese, ossia con la saldatura che andò determinandosi tra una parte di essi – rappresentanti dall’Hezbollah nascente e lievitante – e i palestinesi dei campi profughi;
6. le stragi falangiste di Sabra e Chatila, nel settembre del 1982, polarizzarono la coscienza nazionale israeliana, creando le condizioni per il manifestarsi di un movimento pacifista, Peace Now, nato in ambito non solo civile ma anche militare (alla fine degli anni Settanta, tra i riservisti), con un programma preciso: il ritiro dai territori occupati militarmente, al nord, in Libano, nonché da quelli amministrati dopo le conquiste conseguite con la guerra del 1967, ad est, ovvero in Cisgiordania. A ciò avrebbe dovuto accompagnarsi la negoziazione definitiva del rapporto con i palestinesi;
7. di fatto Peace Now diede nuova linfa ad una sinistra laburista, ancora in grave crisi per la clamorosa sconfitta elettorale subita nel 1977, quando aveva vinto il Likud di Begin, e da allora passata ad una opposizione incapace di esercitare politicamente (avendo perso per sempre quell’egemonia di cui aveva goduto nei decenni precedenti, soprattutto nella società civile);
8. la guerra del 1982 (che si concluse solo con il 1985, con il definitivo ritiro avvenuto nella cosiddetta «fascia di sicurezza», a sud del fiume Litani) fu la prima integralmente combattuta dai figli degli anni Sessanta, nati in un’epoca per molti aspetti “post-sionista”, quando cioè Israele si era emancipata dalle originarie condizioni di pauperismo materiale e “ascetismo politico”, che l’aveva obbligatoriamente caratterizzata nei primi dieci anni di vita, accedendo ad una maggiore tranquillità economica (l’espansione del Pil, con indici che variavano dal 4 all’8% in più per anno, durò fino al 1973) e ad uno sviluppo sociodemografico autoctono, sempre più indipendente dai robusti flussi immigratori che l’avevano caratterizzata precedentemente;
9. il turning point generazionale registrato nella campagna del 1982 segnò il passaggio dall’età dei padri (i “pionieri”) a quella dei figli (i “guerrieri” loro malgrado) che si ponevano domande sulle ragioni di ciò che facevano e di come lo andavano facendo. Le motivazioni di questi ultimi perdevano quella dimensione strettamente emergenziale ed esistenziale che aveva caratterizzato i genitori, per assumere una valenza più problematizzante. Nella condotta della campagna libanese emersero, per una parte della popolazione israeliana, i limiti di una azione militare senza un preciso obiettivo politico. Quest’ultimo non era mancato (lo aveva espresso Ariel Sharon, confidando nel mutamento di equilibri politici a Beirut e nella scelta che un nuovo governo libanese, più favorevole ad Israele, avrebbe fatto a favore di un trattato di pace) ma non si era avvalso di interlocutori credibili né di una strategia militare e politica sufficientemente realista;
10.il Libano diventò quindi, nella narrazione fattane da una parte della società israeliana, quella che si riconosce a tutt’oggi nel cosiddetto «campo della pace», perlopiù la sinistra, il potenziale “Vietnam di casa nostra”, intendendo con ciò un conflitto a media intensità, di lunga durata, senza una plausibile conclusione, basato su una lunga e logorante esposizione delle truppe (soprattutto di leva, ventenni) e sul confronto con le popolazioni civili locali. In questo senso il Libano entrò nella coscienza collettiva come il simbolo di una nuova epoca per Israele. Per i sostenitori dell’opzione militare indicava i rischi di una pratica bellica priva di razionalità; per chi riteneva discutibile un approccio affidato unicamente alle armi demandava alla inaffidabilità politica e morale di tale condotta. Gli uni e gli altri non mettevano in discussione il paradigma della sicurezza ma lo declinavano in modi, tra di loro, molto differenti. Le stagioni sono trascorse ma l’«enigma Libano» (paese angosciante e, nel medesimo tempo, per certi aspetti quasi seducente), agli occhi degli israeliani, rimane irrisolto. Si tratta di un nazione che è oggi raccontata in molti modi ma soprattutto con gli occhi di chi partecipò, giovanissimo, alle operazioni militari che ne segnarono, come sempre capita in questi casi, il proprio vissuto e la sua successiva identità. I film raccontano l’irrisolto rapporto con quella storia, individuale e collettiva.

Claudio Vercelli