Qui Locarno – Un bagaglio di umorismo ebraico in salsa berlinese

Ernst Lubitsch (il grande regista cui il Festival del film di Locarno rende omaggio quest’anno), nato a Berlino nel 1892 da una famiglia di ebrei russi, decide da giovanissimo di non seguire la tradizione di famiglia e lavorare nella sartoria del padre, ma la sua grande passione per il teatro. Dopo aver lavorato nella compagnia di Max Reihnardt, nel 1913 debutta nel cinema come attore diventando, nel giro di pochi anni, uno dei protagonisti del cinema tedesco del periodo Weimar. Pinkus l’emporio della scarpa del 1916 è uno dei primi film che interpreta e dirige. Il Pinkus del titolo si riferisce a Solomon ‘Sally’ Pinkus, interpretato dallo stesso Lubitsch, un giovane scapestrato espulso da scuola a causa della sua cattiva condotta. Sally inizia quindi a lavorare come apprendista commesso in un negozio di scarpe, dove passa la maggior parte delle giornate a flirtare con la giovane figlia del proprietario e le belle clienti. Dopo una serie di comiche imprese, Sally riesce ad ottenere un prestito da una ricca signorina. Così finisce per aprire il suo negozio, l’emporio Pinkus, e in più a sposare la sua benefattrice. Nel 1919 Lubitsch scrive, dirige ed interpreta Meyer il berlinese. Meyer, grazie ad un falso certificato medico, si fa spedire in Tirolo per curarsi e sfuggire così alla moglie Paula rimasta a Berlino. Vestito con i lederhosen, Meyer s’introduce alla bella Kitty in vacanza insieme al marito Harry. Subito cerca di sedurla usando ogni possibile stratagemma. Il film finisce con i due che trascorrono insieme la notte in una baita senza sapere che anche Harry e Paula, che ha seguito di nascosto il marito da Berlino, sono lì. Se nei film del periodo americano la matrice ebraica del suo cinema è espressa in maniera molto discreta, nei primi film berlinesi come Pinkus o Meyer aus Berlin, Lubitsch mette in scena storie che hanno come protagonisti personaggi inequivocabilmente ebrei.

Non solo per i loro nomi o per il fatto che i titoli dei dialoghi sono infarciti di espressioni in Yiddish. Ispirati dal suo milieu fatto di artigiani e commercianti e dalla tradizione del Purim Spiel (le rappresentazioni teatrali messe in scena durante la festa di Purim), questi personaggi sono fortemente stereotipati, la caricatura degli Ostjuden, gli ebrei dell’Est Europa immigrati in Germania: arrivisti, disonesti, opportunisti. Pinkus, infatti, diventa il proprietario di un negozio di scarpe grazie all’imbroglio, prendendosi gioco di tutti. In una scena di Meyer aus Berlin vediamo il protagonista a letto, la notte prima della scalata di una montagna di 2800 metri a cui ha deciso di partecipare per impressionare la giovane Kitty; grazie ad un montaggio fotografico la montagna, come in un sogno, si materializza nella sua stanza con un numero ad indicarne l’altezza. Meyer si alza dal letto e cancella i due zeri facendo diventare la montagna alta 28 metri. Poi, rivolgendosi alla macchina da presa e allo spettatore dice “Sapevo che potevo contrattare con quella montagna”, in altre parole gli ebrei cercano sempre di abbassare il prezzo. Se Lubitsch non fosse ebreo i suoi primi film verrebbero considerati antisemiti. Queste commedie di grandissimo successo meritano, tuttavia, una lettura più attenta: l’uso di stereotipi antisemiti sullo schermo permette a Lubitsch di criticarli, smontarli e, paradossalmente, riderne insieme ad un pubblico composto per la maggior parte di non ebrei. Pensiamo soltanto all’idea di mettere sullo schermo un ebreo che va a spasso per le Alpi, vestito da Tirolese con corde e bastoni, cercando di sedurre una giovane tedesca. Lubitsch mischia le carte e fa suo l’immaginario antisemita rivelando così il fallimento del processo d’integrazione della minoranza ebraica in Germania. Ma se i non ebrei ritrovano il loro antisemitismo comicamente trattato in una complessa operazione intellettuale che ne rivela l’assurdità, gli ebrei, purtroppo, sullo schermo, vedono allontanare sempre di più il loro sogno d’integrazione nella società tedesca del primo dopoguerra.

Rocco Giansante – Pagine Ebraiche agosto 2010