Qui Livorno – Il “Platone ebraico” che spiegò la Qabbalah all’Europa
Quale deve essere il rapporto tra “noi” e “gli altri”? E quello tra identità ebraica e conoscenza scientifica? Queste domande hanno rappresentato fondamentali interrogativi dell’ebraismo nel corso dei secoli, divenuti ancora più profondi con l’emancipazione e la possibilità di vivere “come gli altri” a tutti gli effetti. Risposte importanti arrivano dalle opere di Elia Benamozegh, rabbino, cabalista, filosofo italiano, vissuto a Livorno tra il 1824 e il 1900. Di famiglia originaria di Fez in Marocco, Benamozegh si dedicò fin da giovanissimo allo studio della Qabbalah, ma fu anche profondo conoscitore della filosofia contemporanea, e in particolare, tenne bene a mente il razionalismo di Hegel. Secondo il pensatore livornese, definito dal suo allievo Dante Lattes il “Platone dell’ebraismo italiano”, religione e pensiero moderno non si pongono in contrasto. La tradizione ebraica deve rappresentare qualcosa che non si esaurisce nel passato, ma va a costituire la parte vitale dell’ebraismo nella dimensione contemporanea. Questa diventa la soluzione per la crisi religiosa e morale che l’ebraismo attraversava in quel momento storico. Un insegnamento di grande modernità, come sottolinea Alessandro Guetta, professore di Storia del pensiero ebraico all’Institut National de Langues et de Civilisations Orientales di Parigi, autore del libro Filosofia e Qabbalah. Saggio sul pensiero di Elia Benamozegh.
Professor Guetta, com’è nato il suo interesse nei confronti per Benamozegh?
È stato nel corso degli anni Settanta. Studiavo con il rav Giuseppe Laras, allora rabbino capo della Comunità ebraica di Livorno, dopo essere tornato da un periodo in una yeshivah israeliana. Ero profondamente immerso nel mondo degli studi ebraici e talmudici, ma sentivo il bisogno di coniugarli con la cultura in cui ero cresciuto, di non vivere le due dimensioni in modo separato. In Benamozegh ho trovato le risposte che cercavo.
Se dovesse riassumere in poche parole il pensiero di quest’autore?
Bisogna partire dall’idea che Benamozegh era un cabalista, aveva radici marocchine ed era legato alle sue origini, tant’è che anche il suo maestro proveniva da quella terra. Allo stesso tempo era profondamente permeato della cultura italiana ed europea ottocentesca, dal razionalismo hegeliano, dal positivismo. La sua scelta fu di tradurre nei concetti della filosofia europea il pensiero cabalistico, sia dal punto di vista concettuale che letterario. Per ogni parola ebraica cercò il termine italiano o francese più adatto a esprimerla. E in effetti, la sua stessa scelta di scrivere di mistica ebraica in italiano e in francese è significativa.
E qual è invece il legame di Benamozegh con Livorno?
Quello di un uomo che ha vissuto a Livorno tutta la vita senza mai spostarsi più in là di Pisa. In un certo senso si può affermare che Livorno sia nata con gli ebrei e il senso di cosmopolitismo e la vivacità intellettuale della città sono stati fondamentali per i suoi studi.
Nella sua opera più famosa, Israele e l’umanità, pubblicata postuma nel 1914, Benamozegh parla dell’ebraismo come di una religione allo stesso tempo particolare e universale. Cosa voleva dire?
Benamozegh ricorda che l’ebraismo, oltre che al popolo ebraico in modo particolare, si rivolge all’umanità intera attraverso i sette precetti che Do comanda a Noè per tutti gli uomini. Questo diventa il simbolo della possibilità di coltivare la diversità depurandola dall’idea di superiorità e inferiorità, ma anzi dimostrando l’esistenza di una base comune a tutta l’umanità. Benamozegh era un religioso, ed è nel vincolo religioso che la individua, nel monoteismo. Lui è un autore ebreo e rivendica la sua ebraicità, senza per questo entrare in conflitto con la maggioranza, ma semplicemente rimanendone distinti, con la consapevolezza di essere tutti, comunque, uomini.
Quale messaggio possiamo trarre oggi dall’opera di Benamozegh?
Prima di tutto l’importanza di una conoscenza profonda, tanto della cultura della realtà in cui viviamo, quanquanto di quella ebraica, che non può prescindere da una conoscenza diretta dei testi in lingua originale. E poi la centralità di un atteggiamento di curiosità verso il mondo, che sia refrattario a ogni chiusura. Non possiamo sopravvivere da soli. La nostra tradizione deve essere la base per capire e vivere la modernità, perché se rimaniamo arroccati in quello che siamo rischiamo di perdere la nostra stessa identità.
Rossella Tercatin, Pagine Ebraiche agosto 2010