Riflessioni sull’ateismo. La voce di Scholem

In una conversazione con Muki Tsur del 1975, in cui ripercorre il suo complesso e affascinante itinerario intellettuale, che lo portò nel 1923 a scegliere con decisione la aliyà e a dedicarsi allo studio della qabbalà, pur restando un razionalista, Gershom Scholem parla dei molteplici distacchi che hanno segnato la sua vita. Sono stati i distacchi dalla casa paterna a Berlino, dalla versione patriottica del sionismo di Herzl, da Martin Buber, dalla psicoanalisi, dal marxismo, da un certo stile di vita in Eretz Israel. Il distacco è un modo di congedarsi, di dire addio. E dire addio è un atto critico, un modo di esercitare la ragione. Se la ragione lo ha esposto al congedo, un orientamento fermo è stata la sua ricerca dell’ebraicità e del sionismo. «Ero tra quelli – afferma motivando la sua posizione – che consideravano il passo biblico: “E sarete per Me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19, 6), la definizione stessa del sionismo»
Ma con enfasi Scholem sottolinea che pur in tutti quei congedi, non si è mai separato da D-o. E aggiunge: «Non capisco gli atei; non li ho mai capiti. Penso che l’ateismo sia comprensibile solo se si accetta il dominio delle passioni sfrenate, una vita senza valori. Sono convinto che non esista una moralità con un significato intrinseco, se non c’è una base religiosa. Non credo che esista qualcosa come l’autonomia assoluta dell’uomo, per cui l’uomo si fa da sé e il mondo si crea da solo».
Riprende l’affermazione di Dostojevskij per il quale «se D-o non esiste, tutto è permesso». E commenta osservando che senza D-o non esistono né valori né un’etica che abbiano una forza vincolante. «La fede in D-o si rivelerà una forza anche non manifestandosi. […]. Verrà forse il giorno in cui sarà proibito parlare di D-o. Ma allora la fede crescerà».

Donatella Di Cesare, filosofa