Qui Livorno – Quell’esplosione d’arte che mandò in crisi la tradizione

Non esiste una scuola, un elemento stilistico o una predilezione tematica che accomuni i pittori ebrei di Livorno. Ma la lista dei loro nomi, dai macchiaioli a Modigliani, è eccezionalmente ricca e comprende figure che hanno contribuito in maniera determinante a definire la storia dell’arte moderna italiana nella fase di rottura che ha messo in crisi e riformulato il linguaggio visivo occidentale tra la metà dell’Ottocento e l’affermarsi dei regimi totalitari in Europa. Quattro figure bene rappresentano gli altrettanti scarti generazionali che hanno rivoluzionato il modo di vedere e dunque di mostrare le cose. Serafino De Tivoli (1826-1892) ebbe un ruolo importante nella fase iniziale della scuola dei macchiaioli. Attivista e combattente risorgimentale, pittore attivo tra Firenze e Parigi alla metà dell’Ottocento, De Tivoli fu uno dei fondatori del celebre circolo d’artisti del fiorentino Caffè Michelangiolo. Vicino all’ambiente parigino della tarda Scuola di Barbizon e poi aggiornato sui primi sviluppi dell’Impressionismo, introdusse la scuola toscana alla predilezione francese per la pittura di paesaggio en plein air e a un realismo basato sull’osservazione diretta piuttosto che su convenzioni accademiche. Tanto da essere considerato da Telemaco Signorini “il padre della macchia”. Anche Vittorio Corcos (1854-1933) fu attivo a Parigi via Firenze. Ritrattista brillante, interpretò con successo l’élite culturale della belle époque parigina e dell’Italia giolittiana. Introdotto nei circoli parigini di Zola e Flaubert, e poi in quelli toscani di Carducci, Mascagni e Pascoli, fu in grado di compiacere i suoi committenti con uno stile tradizionale e allo stesso tempo capace di cogliere con freschezza il nuovo carattere della borghesia liberale. Sebbene quasi coetaneo di Corcos, Ulvi Liegi (Luigi Levi, 1858-1939 – nell’immagine un suo quadro raffigurante la Sinagoga di Livorno) sembra appartenere a una generazione successiva. Artista colto e ricettivo, formatosi alla scuola macchiaiola di Signorini, visitò Parigi nel 1886 in occasione dell’ultima mostra impressionista che apriva le porte a ciò che dopo l’impressionismo sarebbe avvenuto – Seurat vi esponeva La Grande Jatte. Un quadro come La Modellina del 1889 già dimostra un’elaborazione originale e assai precoce del post impressionismo (è il passaggio tra Degas, Gauguin e Toulouse – Lautrec). Sin dal primo decennio del Novecento le sue opere, accesissime, sono pienamente partecipi del clima fauve di Matisse o ancor meglio di Derain. Il colore, svincolato da ogni funzione descrittiva, è usato come puro strumento espressivo.

Anche Amedeo Modigliani (1884- 1920 – nell’immagine un suo quadro “Nudo coricato”) si formò presso gli epigoni della macchia. Ma, giunto a Parigi nel 1906, si amalgamò presto alla nascente avanguardia internazionale. Con Picasso e a Brancusi fece ricorso all’arte “primitiva” africana, intesa come fonte alternativa alla tradizione occidentale. L’intento collettivo era quello di inventare un nuovo linguaggio visivo che corrispondesse al modo di percepire nuovo, radicalmente mutato dalla modernità. Similmente a Picasso, Modigliani semplificò geometricamente l’anatomia umana. Ma mentre l’interesse del Picasso cubista si concentrò sulla struttura delle cose rappresentate e sulla natura arbitraria del linguaggio visivo che le rappresenta, Modigliani innescò un dramma più sensuoso nei suoi quadri. Creò un dialogo teso se non un vero e proprio contrasto violento tra gli strumenti elementari della pittura: da una parte la struttura lineare che definisce le figure e il chiaroscuro che le fa apparire tridimensionali; dall’altra i colori violenti e saturati che corrodono le linee e tendono ad appiattire il quadro, fino a portare l’immagine in superficie. Nella metafora del quadro come finestra che dominava il sistema rappresentativo occidentale sin dai tempi di Leon Battista Alberti, i nudi di Modigliani sono spiaccicati contro il vetro immaginario attraverso cui li si guarda. La violenza cromatica di Modigliani è partecipe del clima espressionista degli artisti di Montparnasse che frequentava, quasi tutti ebrei dell’Est Europa. Ma a differenza della dimensione visionaria e mistica di Chagall o delle allucinate distorsioni di Soutine, Modigliani era in grado di coniugare l’idioma d’avanguardia con una tradizione raffinatissima che risale ai preziosi arabeschi di Simone Martini e alle sinuosità allungate di Botticelli. La pittura di questi artisti non si distingue per “ebraicità” – ammesso che esistano aspetti individuabili come essenzialmente ebraici in arte. È vero che alla fine della sua carriera, negli anni Trenta, Ulvi Liegi ha dipinto una serie di vedute dell’interno del Tempio di Livorno e che sia Corcos sia Modigliani hanno ritratto amici e committenti ebrei. Ma non lo hanno fatto più spesso o con più enfasi dei loro colleghi non ebrei. Rientrano tuttavia nel fenomeno straordinario della centralità che in un secolo scarso hanno progressivamente avuto artisti, collezionisti, storici dell’arte e galleristi ebrei nel sistema dell’arte europea. Straordinario soprattutto in relazione alla relativamente scarsa tradizione ebraica nelle arti figurative e al divieto biblico di rappresentare. Tra le cause concomitanti spesso addotte sono l’emancipazione ebraica e l’assimilazione alla cultura della migliore borghesia gentile, la volontà di partecipare alle rispettive culture nazionali, la ricerca di una sacralità culturale a sostituzione della religiosità in declino, una sete d’immagini retroattiva. Privilegiata e internazionale, la comunità ebraica livornese ha costituito terreno particolarmente fertile per l’emergere di queste generazioni di artisti anche in virtù di un interessante connubio: la coltivazione estetica di matrice sefardita derivante dal principio del hiddur mitzvah (fare onore alla mitzvah non solo adempiendola, ma rendendola anche bella) e il retaggio umanistico e artistico toscano. Si tratta di un contesto in cui sembrava naturale che il rabbino della città fosse anche professore di lingue classiche e collezionista d’arte contemporanea: era con Ulvi Liegi che rav Alfredo Toaff discuteva i propri acquisti di pittura moderna.

Raffaele Bedarida, Pagine Ebraiche, agosto 2010