Come siamo giudicati
La similitudine “scolastica” che ho proposto la settimana scorsa (Kippur come un esame a settembre) mi è venuta da una discussione sorta spontaneamente durante l’ultimo incontro del bet midrash delle donne di Torino. Trattando di giustizia e misericordia divina alcune di noi, insegnanti, hanno pensato istintivamente agli allievi. (Spero non si tratti di delirio di onnipotenza da parte nostra, ma semplicemente della necessità di inquadrare il discorso in un ambito più quotidiano e familiare per dargli maggiore concretezza). In particolare, io sostenevo che per un allievo è frustrante l’eccessiva indulgenza, perché implica sfiducia, come a dire “da te non pretendo di più perché tanto so che non ci arrivi”. Invece è lusinghiero quando l’insegnante ci dice “so che puoi fare di meglio”, anche se poi il giudizio è più severo, perché sentiamo la fiducia nelle nostre potenzialità.
Lo stesso si può dire, secondo me, a proposito della concezione ebraica della giustizia divina. Altre religioni sembrano in apparenza più indulgenti verso l’uomo, ma questa facilità presuppone una grave sfiducia: l’uomo è peccatore per natura e non può farci niente. Mi sembra molto più ottimista, invece, l’idea che l’uomo, pur con tutti i suoi difetti, sia comunque in grado di fare un po’ di più di quel che fa, e quindi dovrebbe cercare di sforzarsi perché il suo sforzo non è inutile. L’insoddisfazione per il nostro comportamento presuppone fiducia nelle nostre possibilità di migliorare, che non è una cosa da poco.
Anna Segre, insegnante