Un film rimasto senza fine

Per quasi mezzo secolo, un film di propaganda nazista incompleto sul Ghetto di Varsavia, semplicemente intitolato Das Ghetto e scoperto da alcuni archivisti nella Germania dell’Est del dopoguerra, fu usato da studiosi e storici come documento autentico seppur imperfetto della vita nel Ghetto.
Girato in 30 giorni nel Maggio del 1942 – appena due mesi prima dell’inizio delle deportazioni al campo di stermino di Treblinka – questo film muto, lungo un’ora, giustapponeva casuali scene di ebrei che si godevano vari lussi con immagini di profonda sofferenza.
Come le sfarfallanti ombre nella caverna di Platone, queste immagini sono state oggetto di una radicale rilettura dopo l’apparizione, nel 1998, di un’altra bobina contenente 30 minuti di tagli che mostrano fino a che punto le sequenze filmate erano state deliberatamente messe in scena.
Ripresa dopo ripresa, vediamo ebrei ben vestiti entrare in una macelleria, ignorando i bambini che chiedono l’elemosina fuori in strada. In un altro spezzone, a quelli che sembrano degli agiati passanti è data l’indicazione di non prestare attenzione ai cadaveri abbandonati sul marciapiede.
La manipolazione di mezzo milione di prigionieri da parte dei propagandisti è, adesso, chiara, anche se la ragione del progetto – forse qualcosa di più che filmare scene che avrebbero dovuto mostrare l’insensibilità dei ricchi ebrei verso i loro fratelli meno fortunati – rimane difficile da chiarire.
In A Film Unfinished [un film incompleto], la regista israeliana Yael Hersonski si cimenta in un’analisi critica di Das Ghetto che si rivela notevole per il livello filosofico che raggiunge. Muovendosi metodicamente da bobina a bobina e riconoscendo i “numerosi livelli di realtà”, la regista crea un palinsesto di impressioni partendo da molteplici e meticolosamente ricercate fonti che rappresentano sia le vittime che gli oppressori.
Se negli stralci da una video intervista, Willy Wist, uno dei cineoperatori di “Das Ghetto”, è evasivo come ci si aspetterebbe, altri testimoni non si sono risparmiati.
Letture da diari personali, come quelli di Adam Cherniakov, il capo del Consiglio ebraico (il cui appartamento fu usato numerose volte come location dai nazisti), e dai rapporti minuziosamente dettagliati compilati dal commissario del Ghetto Heinz Auerswald, forniscono una visione dettagliata delle restrizioni quotidiane e dei metodi dei cineasti nazisti.
Accoppiando con attenzione scene del film e descrizioni nei diari (il montaggio del film, curato da Jöelle Alexis, è sorprendentemente accurato), A Film Unfinished finisce per diventare un’esplorazione dell’atto del guardare, o più precisamente della differenza tra guardare e vedere. In nessun altro luogo del film questo è più evidente che nella decisione della regista di invitare cinque sopravvissuti del Ghetto di Varsavia a guardare il metraggio originale e di filmare le loro reazioni.
“E se riconosco qualcuno?” si domanda una donna, quasi mai provando a guardare lo schermo. Mentre le atrocità scorrono intermittenti sulle facce dei sopravvissuti – quasi un film che si riflette in un altro film – Hersonski silenziosamente crea spazi per le memorie. Più che i preziosi controlli sulla realtà (“Quando mai avevamo fiori? Ce li saremmo mangiati i fiori!”), questi ricordi ancorano il passato al presente e le immagini all’esperienza umana, in maniera tale da cambiare la nostra percezione del film su Varsavia. Sia quando s’incupiscono alla vista di uomini e donne nudi costretti con le armi ad andare al bagno rituale o quando respingono completamente i tentativi dei nazisti di sottolineare l’agio degli ebrei (“Mia madre aveva un bel cappotto e, a volte portava il cappello. E allora?”), i sopravvissuti sembrano parlare per quelli che non possono più.
Misterioso, intenso e intellettualmente provocante, A Film Unifinished colloca i noti orrori dell’Olocausto all’interno di un commento filosofico sulla maniera in cui vediamo le immagini.
Se la voce narrante della musicista israeliana Rona Kenan riempie i vuoti del documento visivo, le testimonianze più eloquenti sono quelle di chi è muto: gli ebrei affamati che guardano incomprensibilmente alle macchine da presa dei nazisti, la giovane donna che esprime tutto il suo disagio quando è costretta a posare al fianco di un mendicante.
Alla fine, il valore del lavoro di Hersonski, più che in quello che mostra, risiede nel continuo ricordarci di quello che non è.
La nostra attenzione è ripetutamente diretta al processo stesso della creazione filmica: la rievocazione in scena della testimonianza di Wist, l’uso dell’immagine di un proiettore in azione per dividere le diverse bobine, la messa in pausa delle immagini dei cineoperatori nazisti inavvertitamente catturati sulla pellicola, quasi come intrappolati nelle loro fabbricazioni. Così Hersonski enfatizza la mano dietro il sipario di celluloide.
Lasciando il cinema, una domanda riecheggia: quando non sarà rimasto nessuno a testimoniare, fino a che punto potremo fidarci dei nostri occhi soltanto?

Jeannette Catsoulis, The New York Times
(traduzione di Rocco Giansante)