Voci a confronto
Si farà la pace? Gli sforzi profusi dall’amministrazione Obama per la ripresa dei colloqui tra israeliani e palestinesi produrranno finalmente un accordo ragionevole, tale soprattutto perché sinceramente condiviso e quindi rispettato? Negli ultimi dieci giorni le fanfare hanno ripreso a suonare e i tamburi a rullare. Ma è innegabile che lo scetticismo sia molto diffuso. Non lo possono esibire gli americani, in quanto patrocinatori, dopo venti mesi di silenzio tra le due delegazioni, di un nuovo round di conversazioni. (Chiamiamole così, in assenza d’altro.) Né è consentito ai due contendenti manifestare un eccesso di titubanze, pur esprimendo a chiare lettere, ognuna per la sua parte, le premesse alle quali sono disposte a riprendere una qualche forma di confronto che non sia quello delle vie di fatto: se per Gerusalemme è imprescindibile, nell’avviare una discussione, l’inesistenza di «precondizioni vincolanti» (che nel linguaggio del dicastero Netanyahu indica la possibilità di potere procedere, dopo il 26 settembre, data in cui terminerà la moratoria nella costruzione di nuove abitazioni negli insediamenti ebraici in Cisgiordania, all’edificazione di nuovi vani) per Ramallah vale il principio esattamente opposto, ovvero l’inaccettabilità di qualsiasi atto che dovesse mutare lo status quo territoriale. La qual cosa, che in sé è tale da potere implicare una paralisi reciproca al tavolo delle trattative, sarà il vero terreno di confronto e, presumibilmente, di scontro, dal momento in cui, il 2 settembre, inizieranno le sessioni di lavoro tra i diretti interessati. Peraltro, estranea a qualsiasi trattativa è Hamas che, nell’intervista che Umberto De Giovannangeli pubblica oggi su l’Unità, scaglia, per bocca di Ismail Haniyeh, un vero e proprio anatema. Su un conflitto oramai canuto – peraltro – c’è anche chi si esercita artisticamente. All’oramai prossima edizione del festival di Venezia concorrerà anche un film, «Miral», firmato da Julian Schnabel. Di che cosa si tratti ce lo dicono Wlodek Goldkorn su l’Espresso e Pietrangelo Buttafuoco su Panorama (al lettore professionale della stampa non può sfuggire che la testimonial della pellicola è Rula Jebreal, dal cui romanzo è tratta la sceneggiatura: la promozione è senz’altro garantita dinanzi ad una figura commercialmente così seducente). Ma al di là dei vincoli di principio, il vero enigma è a cosa voglia aspirare l’amministrazione americana. Poiché se in linea di principio nulla è insuperabile, come passate vicende si sono incaricate di dimostrarci, deve tuttavia sussistere una meta e un arbitro negoziale in grado di farla raggiungere ai contendenti. Mentre in questo caso, al di là del pur legittimo interesse americano ad incassare una cambiale – la sedazione di un vecchio confronto tra due comunità nazionali – da spendere in termini di autoaccreditamento nell’altrimenti difficile nonché ostile proscenio internazionale, ben poco d’altro parrebbe potersi vedere di concreto. Lo stato dell’arte per Washington è, al momento, a dir poco problematico: ritiro da un Iraq dove gli equilibri politici sono così precari da potersi frantumare in un sol colpo, come sottolinea Alberto Negri sul Sole 24 Ore di giovedì 26 agosto; le ripetute difficoltà militari (e non solo) in un Afghanistan controllato solo per piccola parte, sulla scorta della precedente, fallimentare esperienza sovietica; la possibile crisi del Pakistan, potenza nucleare stretta tra la morsa delle alluvioni, la pressione islamista e la colpevole negligenza della sua leadership politica; il rinnovato attivismo russo in Iran, che ha di fatto posto sotto il suo patrocinio il programma di sviluppo nucleare civile del paese (la cui nascita data a più di trentacinque anni fa, per volontà degli stessi americani); lo spostamento di baricentro della Turchia verso l’Oriente e altro ancora, non da ultimo il non nuovo focolaio di instabilità che deriva dalla Somalia, ossia dal montare della violenza fondamentalista e dal suo costituire un oramai concreto pericolo per tutto il Corno d’Africa. Israeliani e palestinesi (che non sono due entità omogenee ed equivalenti, anche se per convenzione vengono accomunate: nel primo caso parliamo di una comunità politica e amministrativa che ha tutti i crismi di un moderno Stato nazionale, a partire dall’esercizio esclusivo della propria giurisdizione su una determinata porzione di terra; nel secondo caso ci riferiamo ad una comunità sociale che aspira a dare seguito ad un percorso di costruzione di una propria entità statuale) scontano, per parte loro, difficoltà e ritrosie nei rispettivi campi riguardo a ciò che resta di qualsivoglia ipotesi di un rinnovato «processo di pace». Così, tra i tanti articoli usciti in questi giorni, si legga quello pubblicato sul Foglio del 25 agosto dove è raccontato «perché Netanyahu teme il suo governo alla prova dei negoziati». Il primo punto critico è, come già si ricordava, il 26 settembre, laddove l’esecutivo israeliano rischia di dividersi al suo interno, come ci ragguaglia Joshua Mitnick sul Wall Street Journal del 26 agosto. Va allora anche in questa direzione, forse, la designazione “preventiva” di un nuovo Capo di stato maggiore delle forze armate israeliane nella persona di Yoav Galant, all’interno di una riconsiderazione generale dei compiti e degli strumenti di cui Tsahal dovrà dotarsi per i tempi a venire, come sottolinea Pierre Chiartano su Liberal di mercoledì. Nell’edizione di Le Monde del giorno precedente, martedì 24 agosto, Benjamin Barthe ha invece raccolto le perplessità e le disillusioni serpeggianti tra alcuni palestinesi della Cisgiordania, per i quali la trattativa costituisce una «mascarade» (ossia una farsa). Significativo il passaggio conclusivo dell’articolo, dove uno degli intervistati recita una sorta di epitaffio quando afferma che «per resistere occorre un leader e una ideologia. A Gaza abbiamo Hamas e la sua ideologia étrange [strana poiché straniera, importata dall’esterno]. In Cisgiordania non abbiamo nulla. Le persone hanno perso il desiderio di battersi per il loro diritti». Ma c’è una questione che sta a monte, ed è qualcosa di più di un fraintendimento lessicale. Si parla, infatti, di «pace» come dell’obiettivo al quale aspirare. Nulla da obiettare in linea di principio. Tuttavia, se si entra nel merito della natura del confronto ci si rende conto dell’intrico e della stratificazione che stanno alla sua origine. Il conflitto israelo-palestinese è letto come reiterazione bellica, ovverosia come una guerra, sia pure atipica, che da decenni perdura e che, per essere risolta, richiederebbe un accordo prevalentemente “militare” tra due contendenti. In realtà la trama delle cose non è così evidente e immediata poiché anche quella parola fondamentale, la «sicurezza», che è il nocciolo delle richieste degli uni come degli altri, ha significati e contenuti molteplici. Tale fatto complica ancora di più qualsiasi ipotesi di negoziazione, presente o futura che sia. Se ha senz’altro fondamento il ricorso alla categoria del «conflitto», inteso come un contenzioso di lunga durata, a volte anche armato, tra due opposti gruppi, dai profili identitari più o meno ben definiti, assai meno congruente è oggi il parlare di guerra se con questa parola si intende qualcosa che demanda a due fronti chiaramente contrapposti, dotati di eserciti nazionali e di giurisdizioni omologhe, con un avvio ma anche una prevedibile conclusione, che avvantaggi esclusivamente l’uno a scapito totale degli interessi dell’altro. L’asimmetria di ruoli e funzioni è il tratto dominante in questo scenario a bassa intensità (un numero non elevato di morti, distribuito in un ampio lasso di tempo, all’interno di un confronto basato più sul logoramento di lungo periodo che non sugli esiti degli scontri immediati, in campo aperto) e la difficile ricomponibilità di un rompicapo territoriale, ma anche identitario, sta tutta nella interconnessione tra le parti in causa e nelle loro inevitabili specularità. Israeliani e palestinesi da sempre condividono, sia pure con aspettative ed esiti diversi, comuni vicende nonché una identica porzione di terra, estremamente limitata, ora sezionata ma in ipotesi ancora aperta alla definizione delle linee di separazione. Si tratta, in questo caso, di una radice comune fortissima, che va al di là delle mutevoli volontà dei singoli protagonisti. Nell’apparente ripetizione, a tratti maniacale, degli stessi gesti, dei medesimi atti di ostilità si cela l’impossibilità di sfuggire da quella stretta vicinanza, ossia da una contiguità, che è spesso indice di commistione e ibridazione, anche se si finge di pensare l’esatto opposto.
Claudio Vercelli