Deuteronomio e rivoluzione
La Torah, e in particolare il libro del Deuteronomio, è al tempo stesso storia e meta-storia. E in particolare è, fra i suoi molteplici aspetti, il libro dell’utopia politica dell’ebraismo.
L’atteggiamento anti-assolutista, anti-dogmatico e riformatore degli ebrei lungo tutta la loro storia ha a mio parere le sue radici in questo grande libro, e in particolare nella parashà di Shofetim. In essa si parla di come deve essere il re d’Israele, e soprattutto di come egli non deve essere. Intendo qui come “riformatore” l’atteggiamento degli ebrei in minoranza fra gli altri popoli in “dialogo positivo” verso l’esterno, sempre combattiva in prima linea a favore dei diritti civili, dei risorgimenti e delle rivoluzioni. Naturalmente parlo qui degli elementi attivi e non di tutti gli ebrei, fra i quali c’erano anche i conservatori. Però, anche in senso interno, l’ebraismo non è mai stato veramente dogmatico e si è sempre saputo evolvere ed essere attuale, dentro la vita della comunità, indipendentemente dalle correnti esterne. Esso non si è mai cristallizzato in un “catechismo”. Rambam per esempio, che da buon medievale scolastico cercò di codificare la fede, imitando un po’ la moda di allora, con i famosi 13 articoli, non è stato poi accettato da tutto l’ebraismo ortodosso, tanto che oggi in certi ambienti è lasciato da parte e non viene studiato. Come a dire che nell’ebraismo “in the long run” le forze cristallizzatrici non hanno avuto un successo totale o sono state in un modo o nell’altro rifiutate.
Il re che si prefigura nel Deuteronomio ha fra gli altri attributi il divieto di riportare il popolo ebraico in Egitto. Ma che significa questo? Fisicamente e storicamente tornare in Egitto significherebbe tornare indietro verso la terra della schiavitù, rinunciando alla libertà, alla legge appena ricevuta, alla costruzione della propria vita di popolo indipendente e autonomo. Ma l’altro significato, quello spirituale, del ritorno in Egitto sarebbe regredire verso il luogo per eccellenza dove si pratica l’idolatria, verso il luogo delimitato secondo il midrash da 49 porte di impurità. In Egitto domina un re che rappresenta il contrario dell’idea fondamentale della Torah, la fede nel Dio unico e creatore e il divieto dell’idolatria. Il Faraone non è solo un re, ma anche un dio, è un re-dio, per cui tornare in Egitto sarebbe una discesa, un retrocedere dell’uomo dal suo cammino in ascesa spirituale verso l’attuazione del monoteismo. Ma il popolo sta andando proprio adesso in avanti, in ascesa, verso la Terra nella quale servirà il Re dei re, il Dio unico, Colui che lo ha tirato a fatica fuori dalla terra della schiavitù.
Il significato spirituale, meta-storico, delle parole che si riferiscono alla futura ed eventuale monarchia d’Israele è anche strettamente collegato con la concezione ebraica dell’autorità, in tutti i tempi. In questa parashà si legge che il re non dovrà avere troppi cavalli né troppe ricchezze. Il popolo ebraico è alle porte della Terra nella quale nella quale egli potrà finalmente essere sé stesso e vivere la sua concezione dello stato, per cui è questo il momento più appropriato per incoraggiarlo ad andare avanti e non indietro, e fare l’ultimo grande passo, non solo fisico attraversando il Giordano, ma anche e soprattutto il trapasso mentale e immaginativo, di gran lunga più difficile del primo. Parafrasando questa parashà, la si può tradurre: “Se avrete bisogno di un re per amministrare la vostra vita di società, nominatevelo pure, ma ricordatevi che sono Io il Re vero, il Re dei re. Quello che vi sceglierete voi sarà uno di voi, di carne e sangue, e quindi sarà soggetto ad errare. Egli dovrà scriversi la mia legge e impararsela bene, non solo per applicarla come si deve, ma anche per ricordarsi ogni giorno che la legge l’ho scritta Io e non lui. In realtà il vostro re sarà un servitore come tutti gli altri, un cittadino fra cittadini con il compito di servirli, niente di più, e non il vero legislatore, poiché il legislatore sono Io”. Ed è a causa di questo messaggio fondamentale di “relatività e non assolutezza” del re che l’atteggiamento ebraico verso l’autorità, anche verso gli stessi re d’Israele, ha sempre causato il fallimento di ogni potere assoluto. I re d’Israele, compreso il più saggio di tutti al tramontare dei suoi giorni, hanno in fin dei conti fallito come guide vere e assolute, ma forse proprio per questo hanno aderito fedelmente all’immagine e alla funzione alle quali la Torah li aveva predestinati. Per non parlare poi del re David, in seguito quasi idolatrato come bisavolo nientemeno che del Messia, che invece si rivelò fin dall’inizio come un ditattoruccio sanguinario, al quale fu negato proprio per questo il compito di costruire il Santuario.
Il Deuteronomio, visto come testo politico, preconizza l’indipendenza nazionale: 3500 anni prima dei Risorgimenti europei esso ci dice che il re deve essere ebreo, uno di voi (Deut.XVII,15), affinché non verrete soggiogati ad alcun regno straniero. Ma se è uno del suo popolo, il re trae la sua autorità da questo e quindi non è veramente al di sopra di esso. La legge non la decide lui, ma l’Eterno, per cui è Lui il Re vero e assoluto, il Re dei Re. Il re che il popolo si sceglie è solo un amministratore che ha la funzione di accudire ai bisogni terreni e contingenti della collettività.
Y. Leibowitz diceva, col suo stile unico e provocativo che rese indimenticabili le sue lezioni, che le funzioni di chi “governa” si possono riassumere in quella dello smaltimento della spazzatura dei cittadini, non di più.
Daniel Haviv, alchimista