Davar Acher – Cultura o beni culturali?

Come tutti i lettori ovviamente sanno, oggi è la Giornata Europea della Cultura Ebraica: un’occasione molto ricca e partecipata, che si coordina a una iniziativa europea e ha sempre grande successo, cui dunque non si può che essere favorevoli. A me resta però la sensazione di qualcosa di non completamente pensato a questo proposito. Non avrei problemi se questa fosse definita la giornata dei nostri beni culturali, come spesso di fatto è: l’esposizione degli ornamenti delle sinagoghe e della vita ebraica delle famiglie, per ragioni storiche inevitabilmente poveri in confronto ai tesori delle chiese e dei castelli, ma spesso molto belli, densi di memoria e pieni di spiritualità.
La cultura però non è semplicemente la collezione di capolavori e oggetti del passato, è più vasta perché comprende molti capitoli immateriali (il pensiero, la letteratura, la vita religiosa) e soprattutto è la forza che li plasma, la dimensione attiva e vitale che rende una cultura produttiva. E qui vedo il problema. Non perché la Giornata della cultura non possa contenere anche questo e anzi spesso si sforza di farlo, ma perché la cultura ebraica in tale senso attivo e produttivo mi sembra molto indebolita. In Italia e in generale in Europa. Abbiamo ancora scrittori di grande valore, artisti, musicisti, registi, pensatori; ma sono pochi rispetto alla grande fioritura dell’inizio del Novecento e probabilmente meno significativi. Certo, anche su questo aspetto pesano la grande decimazione della Shoah e l’emigrazione in Israele (per l’Italia di meno, ma per buona parte d’Europa anche in America). Si è esaurito il grande slancio nato dall’emancipazione, durato quattro o cinque generazioni e anche quello più difficile e certamente più debole della sopravvivenza alla Shoah.
La cultura è diversa dalla creatività individuale per il fatto di essere frutto di una vita collettiva. Non basta avere degli intellettuali o artisti ebrei per fare una cultura; bisognerebbe che ci fossero abbastanza ebrei intellettuali e ebrei artisti. La cultura ebraica può essere produttiva e non limitarsi alla stessa memoria solo se c’è un popolo ebraico che la anima e la sostiene. Il problema della cultura ebraica è dunque in fondo quello dell’ebraismo della diaspora, in particolare dell’ebraismo italiano: è ancora un popolo? Distingue ancora i propri costumi, la propria identità, ha una vita collettiva reale? Siamo qualcosa di più dei custodi del museo dei nostri antenati? La questione dipende dai numeri, naturalmente, ma anche dagli atteggiamenti. Cultura viene da coltivare, come il tedesco Bildung da formare, il greco paideia da allevare (i ragazzi): la cultura, secondo queste intuizioni linguistiche non è un deposito di tesori, ma l’attività di far crescere le persone (secondo certe forme, regole, grammatiche). Lo stesso dice il nesso nell’ebraico moderno fra tarbut, cultura e tirbut, acculturazione, e con tirbit, coltura (per esempio di microrganismi; il solo riferimento antico è un passo del Levitico (32, 14), dove il significato sembra essere generazionale). Resta il fatto che la cultura è essenzialmente ciò che si trasmette fra le generazioni e fa l’identità collettiva di un popolo.
Forse una giornata della cultura ebraica dovrebbe pensare soprattutto a questo, alla trasmissione della cultura, naturalmente non di quella generale che deve far parte del patrimonio di ciascuno ed è compito di altre agenzie formative, ma della nostra identità, della nostra differenza. Se vogliamo semplificare abbiamo bisogno di un Talmud Torah permanente, esteso anche alla nostra storia e a quel dato identitario fondamentale oggi che è il nostro legame con lo stato di Israele: un lavoro da fare non solo con bambini e ragazzi ma anche con gli adulti, come già hanno iniziato a fare alcune iniziative pilota importanti. Questa sarebbe una giornata della cultura ebraica, ancor più che la vetrina per gli altri di quelle realizzazioni artistiche del passato di cui pure andiamo giustamente fieri.

A tutti i lettori i miei auguri di Shanà Tovà.

Ugo Volli