Voci a confronto

Attendendo il primo round di negoziazioni tra israeliani e palestinesi, che avrà corso la settimana entrante, tema sul quale le Monde di sabato 11 settembre offre un ampio spettro di posizioni con gli articoli a firma di Frédéric Encel, Donald Horowitz, Hussein Agha, Yuli Edelstein e Saëb Erekat, soffermiamoci su alcuni temi che hanno caratterizzato quella che è andata chiudendosi. Partiamo da una notizia che è passata perlopiù sottotraccia, anche se in questa rassegna stampa se ne ha fatta meritoria menzione nei giorni passati. Il 2 settembre è morto a Tel Aviv il sociologo e storico israeliano Shmuel Noah Eisenstadt. Ne parla Nicolas Weill, sempre su le Monde ma questa volta di mercoledì 8 settembre. Forse ad una parte dei lettori questo nome dirà poco, comprensibilmente, ma a molti altri era invece conosciuto per la notevole caratura dei suoi studi, in parte tradotti anche in italiano. Qualche parola ci può aiutare a meglio inquadrarne la fisionomia culturale oltre che la vita. Nato nel 1923 a Varsavia aveva raggiunto la Palestina mandataria nel 1935, insieme alla madre. Dodici anni dopo aveva conseguito il dottorato in sociologia all’Università ebraica di Gerusalemme dove, di fatto, avrebbe poi svolto buona parte della sua carriera accedemica. Importante, nella sua formazione, era stato il contributo di Martin Buber, con il quale aveva intrattenuto una fitta rete di rapporti intellettuali in qualità di suo collaboratore e assistente. Autore di numerosi saggi sulla modernità e sui processi di modernizzazione, Eisenstadt ha insegnato in prestigiosi atenei, tra i quali le Università di Chicago, di Harvard, di Zurigo, Vienna, Berna e Heidelberg. Nel 1988 aveva ottenuto il prestigioso premio Balzan per la sociologia, con la motivazione di avere «contribuito più di ogni altro studioso contemporaneo a unire la teoria sociologica alla ricerca storica ed empirica nonchè a promuovere la nostra conoscenza delle peculiarità, delle affinità e del compenetrarsi di società antiche e moderne in Africa, Asia, Europa, America Latina e del Nord». A questo riconoscimento ne erano preceduti e seguiti altri ancora, tra il quali il premio Max Planck e l’Holberg International Memorial Prize. Dal 1990 era divenuto professore emerito dell’ateneo gerosolomitano. Tutta la sua attività di studio e ricerca si è svolta intorno ad alcuni concetti chiave legati ai processi di interpretazione delle culture e dei processi di civilizzazione, cercando di cogliere le discontinuità e le criticità che lo sviluppo sociale da sempre porta con sé. Un po’ come si può leggere nell’articolo di Giulio Busi su il Sole 24 Ore di oggi, laddove si parla di «The Jewish Republic», ossia dell’influenza del pensiero biblico, della letteratura talmudica e del giudaismo medievale nel costituirsi di un’autonoma idea repubblicana, attraverso la mediazione protestante. Da questo punto di vista, la nascente società israeliana, di cui Eisenstadt era stato uno dei fondatori, costituì un’occasione privilegiata per analizzare dal vivo i mutamenti ingenerati dall’incontro tra un gran numero di immigrati dalle più diverse origini. Non di meno, anche rispetto all’evoluzione del quadro politico internazionale, aveva più volte ripetuto il concetto che il fondamentalismo politico e religioso – sul quale aveva compiuto molti studi – non era da intendersi come il lascito del passato bensì come un fenomeno proprio della modernità. Sulla falsariga di queste considerazioni va quindi letta l’intervista che Stefano Montefiori su il Corriere della Sera, sempre di mercoledì 8, fa a Maurice Aymard, uno dei maggiori studiosi di storia del Mediterraneo. Quest’ultimo rileva come a fronte di una perdurante cristallizzazione dei sistemi politici dei paesi dell’Africa maghrebina vi sia in corso, invece, un importante mutamento sociale. Il tasso di crescita demografica in realtà come il Marocco, la Tunisia e l’Algeria si è assestato verso il basso: in trent’anni si è passati da cinque figli per ogni donna ad una media di due. L’evoluzione dei sistemi educativi e l’accrescimento del tasso di scolarizzazione tra le popolazioni ha avuto un ruolo importante in questo repentino mutamento.di scenario. Più in generale lo studioso ritiene che «c’è un dinamismo economico sconosciuto fino a qualche anno fa e un superamento della fase post-coloniale che oramai possiamo considerare conclusa». Mettiamo in relazione a queste considerazioni, di lungo periodo, i mutamenti che stanno coinvolgendo la Turchia, dove si sta andando a votare per il referendum sulla riforma costituzionale, così come commenta Monica Ricci Sargentini su il Corriere della Sera di oggi. In gioco sono sia attori che scenari e partiture: il ruolo dei militari, quello del Premier Recep Tayyip Erdogan, la dialettica politica tra maggioranza e opposizione, la laicità dello Stato, l’autonomia dei giudici. La partita riguarda ben 22 articoli della Costituzione del 1982. Più schiacciata sulla contingenza è invece la vicenda di Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana condannata dal regime alla morte per lapidazione, una così barbara pena che, dopo il susseguirsi di proteste e pressioni internazionali contro la sua esecuzione, è stata sospesa. Alberto Simoni, per la Stampa di giovedì 9 settembre, ricostruisce scena e retroscena di una vicenda che, comunque, è ben lontana dall’essersi conclusa. Per una riflessione a più ampio raggio rinviamo all’articolo a firma di Erica Balduzzi e Emilio Fabio Torsello su il Fatto quotidiano sempre dello stesso giorno, dove la parola è data a Riccardo Noury di Amnesty International, all’islamologo e arabista Paolo Branca e alla giurista Roberta Aluffi. Il dato emergente, come afferma Branca, è che «si parla di Sharia e di legge islamica ma una codificazione universale di tale legge non esiste». Abdullah Ahmed an-Naim, docente e pensatore musulmano di origine sudanese, intervistato da Martino Diez per l’Avvenire di venerdì 10 settembre, sottolinea quanto è risaputo dagli studiosi della religione islamica, ovvero che il Corano non parla di lapidazione per gli adulteri. Così anche Shukri Said, sull’Unità del medesimo giorno, dove la reintroduzione della barbarica prassi è invece attribuita ad un Hadith (un pronunciamento, in buona sostanza, ovvero la trasmissione orale della notizia di un detto, di un atto, di un fatto riguardante Maometto) di Omar, uno dei successori del profeta. Ma al di là della lettura e dell’interpretazione della dottrina rimane il dato stridente, nella sua bieca e nuda disumanità, soprattutto nella misura in cui la sua adozione come legittima prassi è rivendicata da uno Stato. Il processo di reislamizzazione che si è messo in moto a partire dagli anni Settanta (l’evento indice fu, all’epoca, proprio la nascita della Repubblica islamica dell’Iran), e che ha seguito, adeguandosi parassitariamente, il calco disegnato dal tramonto delle ideologie laiche di indirizzo terzomondista (di fatto sostituendosi ad esse), si è infatti molto alimentato della derubricazione del ruolo sociale della donna. Fino a pervenire a considerarle come le portatrici di tabù sociali. In ciò ha trovato grande conforto da quell’insieme di “tradizioni locali” che, attraverso il patriarcato e il familismo tribalistico, costituiscono ancora l’ossatura dei poteri vigenti in non poca parte dell’odierno Medio Oriente. Da questo punto di vista contrapporsi alla barbarie implica non solo il formulare un giudizio critico sulla intollerabile persistenza di una contaminazione pericolosissima, quella tra una certa idea reazionaria e regressiva della religione e sfera della politica, ma anche una riflessione sul nesso diretto che intercorre tra minorità economica di buona parte della popolazione e plagio politico, culturale ed etico da parte delle élites. Che in tale modo mantengono inalterato il loro potere. Come sottolineava il Foglio, giovedi 9 settembre, intitolando significativamente «oltre Sakineh» un intenso corsivo, sussiste un nesso diretto tra la specifica battaglia per il diritto alla vita di una persona e la lotta, più generale, per l’estensione della tutela dei diritti umani. Vale in particolare modo per il regime di Teheran, laddove vige una sorta di emergenza continua: nel mentre ci si adoperava contro la concreta ipotesi che una donna indifesa venisse trucidata due dissidenti, condannati a loro volta a morte, sono stati uccisi. Sette altri attendono il medesimo, triste destino. La lotta, in questi casi, non è mai un fatto meramente “umanitario” bensì politico, chiamando in causa la fruizione dello spazio pubblico, quell’insieme di luoghi fisici ma anche di situazioni mentali in cui si dipanano le relazione sociali, i legami tra individui, e si concretizzano i rapporti di forza e di potere. Il ricorso al terrore è una risorsa strategica nella stabilizzazione interna, alla quale sistemi illiberali e tendenzialmente totalitari – non tanto per la complessa articolazione intestina dei poteri quanto per l’ispirazione ideologica totalizzante, com’è l’Iran di Ahmadinejad – si alimentano. Esiste quindi un nesso diretto tra esistenza e resistenza, spazio di vita e sua intrinseca qualità: non a caso l’asfissiante controllo esercitato dal regime iraniano nei confronti dei corpi, a partire da quelli femminili, attraverso il ricorso alle battaglie sulla cosiddetta «moralità», rivela non solo una filosofia di fondo sessuofobica (e come tale immediatamente sessuomane, laddove ciò che è interdetto in linea di principio è il vero oggetto impronunciabile del desiderio) ma anche la volontà di disciplinare una società civile attraverso l’interdizione della prima delle libertà, che è quella di potere liberamente disporre del proprio corpo, ossia della propria dimensione «privata», laddove essa è il reciproco inverso della dimensione «pubblica», quella in cui il potere manifesta se stesso.

Claudio Vercelli