Rosh haShanà. Come se fosse il giudizio “ultimo”

Lo shofàr che si suona al culmine di Rosh haShanah fa di questo giorno, con cui ha inizio l’anno ebraico, il “giorno del giudizio”. Franz Rosenzweig, riferendosi al Talmud (bRosh Hashanah 16b), sottolinea che, mentre il giudizio viene di solito posticipato alla fine dei tempi, in questa festa è invece situato nell’istante presente. Il singolo si fa avanti per essere giudicato sulla base delle sue azioni e delle sue parole. Il giudizio verrà scritto e poi suggellato, dopo i “giorni terribili” (yamim noraim), a Yom Kippur.
Il singolo è solo: compare davanti a D-o nella sua “nuda singolarità”. È come se si separasse non soltanto dalle vicende della storia del mondo, ma anche dalla storia del suo popolo. Pur pregando sempre nella forma plurale, nel “noi” della comunità, il singolo percepisce il suo “io” che non può più attendere e che non può più nascondersi. Sta nella comunità, ma deve rispondere di sé, in perfetta solitudine, un “morto nel mezzo della vita”, come se avesse ormai tutto alle spalle; è in veste funebre davanti agli occhi del Giudice.
Tutto sa di confine e di estremo. Il giudizio stesso è come se fosse il giudizio ultimo. Nulla esclude infatti che, per il singolo, il giudizio annuale non sia quello della fine. Ma così, nel ritorno dell’”ultimo” giudizio, l’eternità irrompe nel tempo, diventa accessibile al singolo. È questo per Rosenzweig un segno che contraddistingue i “giorni terribili”: lasciano percepire la meta, aprono il varco dell’eterno nel ciclo annuale del tempo. L’anno ebraico diviene “in tutto e per tutto il rappresentante plenipotenziario dell’eternità”.
A tutti Shanà Tovà.

Donatella Di Cesare, filosofa