Le cose come stanno

Il carattere grottesco della recente visita nel nostro Paese del dittatore libico è stato abbondantemente segnalato e stigmatizzato dalla stampa italiana e straniera (da parte di quest’ultima, in particolare, con toni non particolarmente lusinghieri nei confronti del nostro Paese, che pure non sembra brillare, nel mondo, per decoro e serietà), anche sulle colonne di questo Portale, e non c’è molto da aggiungere.
Se il patetico folklore di Gheddafi e della sua corte di fanciulle – che pare portare indietro di millenni l’orologio della storia – attira comprensibilmente l’attenzione, sarebbe anche opportuno considerare la singolarissima natura del cd. “accordo di amicizia italo-libico”, il cui secondo anniversario si è inteso festeggiare (forse diventerà una festa nazionale fissa?), e che rappresenta assolutamente un unicum sul piano del diritto internazionale e delle razioni diplomatiche tra stati. Se, infatti, non è la prima volta che si pretende di dare, in qualche modo, riparazione a torti storici inflitti nel passato a una data popolazione o componente etnica (azioni di rivalsa sono state più volte intentate, con vario esito, in diversi contesti: da parte, per esempio, dei coreani verso il Giappone, dei neri americani contro il governo federale, degli aborigeni nei confronti di quello australiano, dei maori neozelandesi contro la corona britannica, degli ebrei americani contro le banche svizzere ecc.) – senza parlare, naturalmente, delle normali riparazioni di guerra, quali quelle sostenute dalla Germania dopo la Seconda guerra mondiale -, è questa la prima volta, in assoluto, che viene monetizzato e pagato il danno subito da un Paese per un evento, quale la colonizzazione della Libia, accaduto ben un secolo prima (1911). È giusto che i pronipoti dei responsabili di ieri paghino i pronipoti delle vittime, o coloro che si presentano come tali? Sul piano giuridico, all’epoca, com’è noto, non esisteva uno Stato libico, ma una semplice provincia ottomana: perché non abbiamo risarcito la Turchia? E perché non anche l’Etiopia e l’Albania? Ed è sicuro, poi, che sia solo l’Italia la debitrice? Nell’estate del 1945, conclusa la guerra e la Shoah, la Comunità ebraica di Libia fu travolta (a Tripoli, Zanzur, Zawia e Messellata) da una serie di devastanti pogrom, che fecero centotrenta morti e più di quattrocento feriti, tanto che ben 30.000 ebrei si videro costretti ad abbandonare il Paese. Almeno 25, poi, furono assassinati nel giugno del ’67, dopo lo scoppio della “Guerra dei sei giorni”, e altri 6.000 ebrei rimasti furono anch’essi costretti a partire. L’ultimo centinaio, infine, fu espulso proprio da Gheddafi, nel 1970, insieme ai circa 18.000 italiani residenti, dopo la sua violenta presa del potere, ottenuta rovesciando la legittima monarchia (siamo proprio certi, a proposito, che il colonnello debba essere considerato il rappresentante legittimo del popolo libico?). Degli ebrei espulsi, in particolare, oltre a essere confiscati tutti i beni immobili, fu anche cancellata ogni traccia, perfino attraverso la distruzione dei cimiteri. Non sarebbe giusto risarcire i discendenti anche di queste vittime e di questi esuli?
A queste considerazioni, si sa, il governo risponderebbe con ragioni di Realpolitik, collegate, soprattutto, alla necessità che il leader libico controlli le sue coste, e non ci mandi gli indesideratissimi immigrati clandestini. E tutti sappiamo, in effetti quanto Gheddafi sia abile e spregiudicato nel minacciare e ricattare. Subito dopo che risarcì le 270 vittime dell’attentato di Lockerbie, del 1988, inscenò un processo farsa contro alcune infermiere bulgare, che terminò solo quando ebbe restituita, con gli interessi – per evitare una serie di condanne a morte – la somma sborsata per l’aereo fatto esplodere in volo. E quando suo figlio è stato fermato, in Svizzera, per avere rotto la testa a un cameriere, due incolpevoli cittadini elvetici che si trovavano in Libia sono immediatamente stati sbattuti in prigione, dove sono rimasti per mesi.
Anche in questo caso, l’Italia si è semplicemente piegata a un ricatto. Almeno diciamo le cose come stanno.

Francesco Lucrezi, storico