Voci a confronto

Ieri si sono aperti “realmente” i colloqui tra israeliani e palestinesi, dopo la cerimonia voluta a Washington all’inizio del mese dal presidente Obama; al di là delle dichiarazioni ottimistiche fatte soprattutto da Mitchell, nulla è trapelato al termine della giornata, e i previsti incontri coi giornalisti sono stati annullati. Si è solo saputo che, dopo un primo colloquio, Netanyahu e Abu Mazen si sono rivisti per una ulteriore discussione nel pomeriggio, e hanno deciso di rivedersi nuovamente oggi, questa volta a Gerusalemme (una prima assoluta questa scelta di sede) e a Ramallah. In questa situazione è difficile capire come discutano i due presidenti, certo obbligati a trovare delle soluzioni accettabili per tutti ai primi, grandi problemi: il blocco delle costruzioni, destinato a finire il prossimo 26, e il riconoscimento di Israele come nazione degli ebrei. Poi verranno tutti gli altri argomenti per i quali appare difficilissima un’intesa. Netanyahu è braccato anche da numerosi ministri del suo governo, Abu Mazen ha già previsto di chiedere nei prossimi giorni alla Lega Araba un parere vincolante per la continuazione delle trattative. L’unico dato positivo appare al momento lo svolgimento dei colloqui stessi, in attesa di vedere che cosa succederà nei prossimi giorni. Il 71 per cento degli israeliani si dichiara scettico, e, parallelamente, il 70 per cento dei palestinesi afferma che questi colloqui avvengono solo perché imposti dagli americani, non certo perché vi siano delle grandi speranze di successo. Il Financial Times dedica due articoli alle trattative in corso; in particolare quello intitolato: Le speranze di prosperità dipendono da un accordo politico, descrive i grandi progressi dell’economia palestinese in Giudea e Samaria; questo, bisogna ricordare, era proprio nel progetto politico dell’allora candidato Netanyahu in occasione dell’ultima campagna elettorale israeliana, ed è sicuramente la nota più positiva degli ultimi tempi. Il tema dei colloqui tra israeliani e palestinesi è ovviamente ripreso da tutti i quotidiani, anche se, a causa delle poche notizie trapelate, molte testate dedicano solo delle brevi. Tra i vari articoli mi preme osservare la totale mancanza di professionalità di alcuni inviati che non si preoccupano di scrivere delle parole prive di fondamento pur di fare propaganda anziché informazione, nel totale disprezzo dei loro lettori. Oggi, ad esempio, Michele Giorgio, sul Manifesto, parla di Talpiot come di un “insediamento nella zona araba sotto occupazione dal 1967”; lascio ai lettori il commento su simile disinformazione. Restando in tema, un’altra persona sempre pronta ad attaccare la politica israeliana in tutte le sedi e con le parole più dure è sicuramente Paola Canarutto che oggi firma una lettera appello su Liberazione (pubblicata pure sul Manifesto, anche se qui con la firma della Associazione ebrei contro l’occupazione) che, mentre denuncia le persecuzioni contro i rom del “dittatore” francese e i provvedimenti non molto dissimili presi dalla Lega in Italia, inizia con un attacco violento contro Israele per la sua politica nei confronti dei palestinesi: la Canarutto non la considera in nulla diversa da quella dei nazisti. Interessante l’articolo apparso sul Wall Street Journal che prende spunto dall’intervista rilasciata dal Commissario europeo al commercio De Gucht; l’intervista portava un severo attacco alle responsabilità della “Lobby ebraica”, ma ora ci viene assicurato che esprimeva le posizioni personali del signor De Gucht, e non del Commissario europeo De Gucht. La ministro degli Esteri europeo lady Ashton, un’altra persona mai tenera nei confronti di Israele, non ha trovato nulla da obiettare nelle parole del suo collega. Amara la conclusione dell’articolo: “l’Europa, se si guarda al suo futuro, assomiglia sempre più all’Europa del passato”. Dopo il referendum di domenica scorsa in Turchia il Resto del Carlino, Il Giorno, la Nazione pubblicano un’attenta analisi della situazione nuova: “Gli europei sono riluttanti a prendere sul serio le questioni aperte dall’integralismo islamico, ma le vicende turche e le comunità musulmane europee, sempre più numerose, ci imporranno di affrontare con la dovuta serietà una serie di questioni che riguardano, in primo luogo, i nostri valori e i nostri standards democratici”. Queste sono le parole che concludono l’articolo, e il sottoscritto non esita a farle proprie. Le parole del reverendo Jones, esageratamente pubblicizzate dai media di tutto il mondo, e per tale ragione tra le cause delle violenze dei giorni scorsi nel mondo islamico, sono alla base di un attento e preciso articolo di Vittorio Emanuele Parsi su La Stampa del quale si raccomanda la lettura. Infine Le Monde spiega ai suoi lettori perché in Israele, quando è ancora piena estate, si è già passati all’ora solare; la scelta della data non è stata fatta dal governo Netanyahu, ma quest’anno giunge con particolare anticipo nel calendario solare a causa del fatto che le feste arrivano molto presto. Non tutti in Israele sono disposti a perdere quei vantaggi economici che l’ora legale porta alle economie di numerosi paesi, ma certamente questa non è una motivazione che possa essere accettata facilmente negli ambienti super-ortodossi.
Emanuel Segre Amar
15 settembre 2010