Davar Acher – Responsabilità individuale, responsabilità collettiva

Chiunque affronti seriamente questi giorni “terribili” della vita ebraica, in cui ci si dovrebbe dedicare al pentimento, alla risposta, al ritorno (sono tutti significati di teshuvah), sa che è quasi impossibile sentirsene all’altezza. Se non altro perché la cultura in cui viviamo immersi e dunque la nostra stessa psicologia è assai difficilmente compatibile con questa richiesta così esigente e complessa, essendo orientata piuttosto alla “liquida” ubiquità e al relativismo autoindulgente. Il senso di inadeguatezza fa certamente parte integrante dell’esperienza di Kippur ed è codificato ritualmente in quegli strani elenchi di trasgressioni che sono le invocazioni di Avinu Malchenu e di Al chet. Spesso l’inadeguatezza consiste però anche nel non sapersi riconoscere in buona parte di questi elenchi, come se fossimo incapaci anche di dare una corretta valutazione della nostra mancanza. E’ problematico, almeno per me, immergersi nella grande immagine un giudizio che escluda o confermi nel “libro della vita”, sapendo che spesso proprio la vita sembra smentire l’idea di una retribuzione etica immediata. Ed è altrettanto difficile accettare alla lettera il linguaggio della regalità divina che è intrecciato al tema della teshuvah. Insomma bisogna ammettere il rischio di una partecipazione solo formale o rituale a un momento che dovrebbe essere invece profondamente rigenerativo. L’inquietudine che è il tema di Kippur si può trasformare in un’inquietudine rispetto alla giornata stessa, lo straniamento può crescere dalla giusta presa di distanza da sé, fino a investire il senso stesso della ricorrenza.

Bisogna pensare però che questi nostri riti sono assai diversi dalle manifestazioni penitenziali di altre culture e religioni, proprio per il loro carattere collettivo e nazionale. Se si guarda con attenzione alla liturgia, è chiarissimo che il soggetto vero della teshuvah non è l’individuo, ma il popolo. Le invocazioni più importanti sono scritte al plurale: si parla di nostro padre, nostro re, di peccati che commettemmo, si chiede che noi si sia iscritti nel libro della vita ecc.; gli episodi citati a discolpa fanno parte della storia e della preistoria del nostro popolo, come la legatura di Isacco che si legge dal sefer a Rosh Hashanà e che si ripete nei piyutim; lo shofar è uno strumento fatto per risuonare lontano e coinvolgere tutto il popolo, come accadde al Sinai. Il rituale del tempio rievocato dal nostro Kippur dell’esilio aveva una natura di evento di folla, cui erano chiamati anche vecchi e bambini; i due capri, quello “avvicinato” ad Hashem e quello spedito a perdersi nel deserto, carico dei peccati di tutto Israel, sono un’evidente metafora dei possibili destini del popolo, non certo di eventi individuali.

Insomma, senza escludere naturalmente la necessaria assunzione di responsabilità da parte dei singoli, quel che è in gioco davvero è la nostra sorte collettiva, rispetto a cui certamente ha più senso l’elenco dei peccati da cui siamo partiti: peccati o errori (perché chet è etimologicamente un bersaglio mancato, un errore di valutazione, dunque) di cui siamo tutti responsabili, sulla base del principio che Kol Israel arevim ze lazè. Di fatto, ancor più delle altre ricorrenze più esplicitamente legate alla storia del popolo ebraico (Pesach e Purim, Hannukka e Tishà Beav), Rosh Hashanà e Kippur hanno senso nella dimensione del popolo molto più che in quella dell’individuo. Non si possono affrontare da soli. Non a caso queste sono le ricorrenze ebraiche più frequentate, anche da chi è indifferente alla fede e non si pone speciali problemi di coscienza ma sente ancora l’appartenenza al popolo ebraico.

Com’è deformata dall’influsso della cultura cristiana l’idea di una “festa” di capodanno, così lo è quella di una dimensione di confessione e penitenza prevalentemente individuale per Kippur, in cui appariremmo soli davanti al Giudizio. Al contrario, possiamo reggere all’incertezza dei giorni terribili solo affrontandoli insieme, in una dimensione di popolo o almeno di minjan. Il solo modo di vivere ebraicamente questo periodo è quello di porsi insieme il problema della vita del soggetto collettivo cui apparteniamo, il popolo di Israele, e del nostro posto in esso e nella vita. E il primo atto del ritorno (della responsabilità, del pentimento, insomma della teshuvah) come ha insegnato André Neher partendo dall’esperienza formativa di Moshé (Es 1.11) è quello che porta a volgersi “ai propri fratelli” e di sentirsi partecipi della loro condizione.

Ugo Volli