Verso Kippur

Per l’ebreo che ha esperito la cesura tra i due anni, l’infranto dei «giorni terribili», alla ricerca di una purificazione attraverso la teshuvà, si prepara il digiuno, che non è l’astinenza dal cibo fine a se stessa, ma è un modo per ricomporre la frammentazione, per riunificarsi con se stessi e con gli altri grazie alla riconciliazione con D-o.
Ha scritto il filosofo Yuhuda HaLevi, nel suo bellissimo libro Kuzarì, che il digiuno che si osserva nel giorno di Kippur è «il digiuno con cui si è simili agli angeli, perché perfeziona con la contrizione e l’umiliazione, stando in piedi e inginocchiandosi, con le lodi e con gli elogi; tutte le facoltà corporee “digiunano” astraendosi dalle occupazioni naturali, come se nell’essere umano non ci fosse natura animale» (Kuzari 3, 5).
Nella liturgia l’enumerazione dei peccati (contenuta nelle preghiere di Ashamnu e di ’Al chet) è un modo per strappare la confessione, per far affiorare i segreti che si annidano nei recessi più reconditi e che, articolati insieme, vengono condivisi in ripetizioni rinnovate. In questa condivisione, in cui ciascuno è davanti a D-o nella sua umanità spoglia, Israele è consapevole di pregare «con i peccatori» (Kol nidrè). E a Kippur emerge con chiarezza che Israele si fa carico dell’umanità.

Donatella Di Cesare, filosofa
13 settembre 2010