Rito italiano
Una volta all’anno salgo a Gerusalemme per trascorrere un sabato nel Beit haknesset di rito italiano, quello dei miei padri. Salendo le scale dell’edificio, sorto più di cento anni fa per iniziativa, se non erro, di evangelici germanici, in un’epoca di grande sviluppo extra moenia della città, fantastico di ritornare in una comunità minore del Nord Italia, per una certa atmosfera di antichità che ispira l’ambiente. Come il canto delle zemirot del mattino che mi giungono salendo le scale mi riportano, per un istante, a memorie lontane del passato. E entrando nel Beit haknesset, non posso fare a meno di rivedere tante e tante persone che non sono più con noi, dal Parnas, per eccellenza del Tempio di Conegliano-Gerusalemme, Umberto Shemuel Nahon, i due rabbini Artom, Meir Padoa, Giorgio Coen Pirani….e tanti altri componenti della kehillah degli italkim gerosolomitani. Negli ultimi anni, con vivo piacere incontro persone sconosciute, molti giovani e pure appartenenti ad altre ‘edot, attratti dalla specificità del minhag dei Benei Roma e dalle arie delle tefillot, recitate da hazanim dalla voce squillante. Abituato da decenni ai batei haknesset ashkenaziti, mi rituffo nel mondo delle mie radici, in questo angolo di Italia ebraica, nella città che più di tutte, accoglie gli ebrei saliti dai Quattro angoli della Terra. E sento di esprimere un profondo sentimento di riconoscenza per tutti coloro che hanno trapiantato in Eretz Israel i tesori materiali, e spirituali, delle antiche comunità dello Stivale, per tramandare alle generazioni future il retaggio millenario dei padri. L’indomani, visitando il Museo Nahon, annesso al Beit haknesset, appena riordinato con il motto “Oggetti dello spirito, materiale degli oggetti; made in Italy” non ho potuto non riflettere sull’anima dell’ebraicità italica, espressione di una cultura fedele per generazioni al proprio particolarismo religioso, ma aperta alla civiltà circostante, nelle sue manifestazioni artistiche, soprattutto nei secoli post-rinascimentali fino alla emancipazione, pur sottoposti alla segregazione civile e, spesso, a sussulti persecutori. La Curatrice del Museo, Andreina Contessa, mi ha illustrato i criteri del riordinamento degli oggetti esposti nelle quattro sale, per materiali usati. Dai metalli preziosi (corone e rimonim d’argento) ai tessuti dei meilim e delle cortine (parochet) degli aronot, dalle arche sante lignee barocche al seggio del profeta Elia delle milot, alle pergamene delle meghilot di Esther e ai testi manoscritti di antichi formulari di tefillot. Tesori di Judaica, donativi di famiglie e di singoli di comunità italiane, restaurati in lunghi mesi di lavoro in loco dalle abili mani di veri e propri artisti, invitati da questo laboratorio da altri musei del paese. Una considerazione, da italki’ che si sente, da lustri, impegnato nella costruzione di una società ebraica. Che l’eredità ricevuta dal nostro passato, con la sua caratterizzazione di armonia estetica, di una religiosità non fanatica e equilibrata, costituisca il contributo più valido e duraturo al resto del Kelal Israel nella sua Terra.
Reuven Ravenna
17 settembre 2010