Davar Acher – Il percorso di Kippur
Attraversando consapevolmente il percorso umano e collettivo di Kippur, può esserci anche lo spazio di fare attenzione al suo “progetto semiotico”, per così dire: cioè alla complessità e alla ricchezza della liturgia che lo sostiene. Sono certamente osservazioni marginali rispetto al senso proprio della ricorrenza, ma forse hanno la loro importanza per riflettere sul nostro ebraismo.
Da un punto di vista funzionale, non si può non vedere che la celebrazione di Kippur, più di ogni altra occasione ebraica, costituisce una straordinaria, ricchissima e dettagliata tecnologia psico-comunicativa, che a sua volta ha due aspetti: quello di condurre l’orante a interrogarsi su di sé e ad aiutarlo in direzione di una reintegrazione (anche questo può essere il significato di teshuvà) e quello comune a tutte le ricorrenze di perpetuare la memoria collettiva della comunità.
Lasciando da parte il primo aspetto più esplicito ed evidente, bisogna dire che a Kippur la funzione di esaltazione della memoria culturale è particolarmente accentuata dalla rivisitazione della storia ebraica che compiono i brani poetici delle selichot, e assume un aspetto centrale nell’accostamento fra tre formulazioni della stessa ricorrenza. Sono quella antichissima prescritta nel brano di Torah che si legge la mattina, la descrizione particolareggiata del più tardo e più complesso rituale del Tempio che si legge poco dopo, e infine la celebrazione che si sta svolgendo oggi in quello stesso momento, e che a tratti riproduce simbolicamente alcune azioni della seconda in aspetti marginali ma fortemente simbolici, come la genuflessione che alcuni eseguono proprio al momento in cui il testo racconta di come il popolo si prosternasse nel Tempio sentendo pronunciare il Tetragramma, o la pronuncia a voce alta della loro stessa risposta in benedizione del Nome, che di solito si tiene sottovoce all’inizio della recita dello Shemà: straordinari corto-circuiti della memoria, che danno alla richiesta delle teschuvà o del ritorno anche una dimensione storico-simbolica. Tornare, rispondere, pentirsi significa aderire a una tradizione, mantenerla viva ricordandola. Perché l’individualità di un popolo è nella sua memoria.
Sono dettagli che però si inseriscono in una trama di gesti, di parole, di racconti e di immagini, insomma in una dimensione semiotica che ha un forte valore simbolico e una grande capacità di influenza su chi vi partecipa, pur non spostandosi mai nella dimensione dei “segni efficaci” di altre religioni, che a noi appaiono a rischio di magia. E’ al contrario una semiotica esclusivamente ma riccamente simbolica, in cui le immagini e le narrazioni si connettono per stabilire un senso unitario e per dettare la partecipazione del singolo a questo lungo percorso collettivo: una continuità del popolo e del suo rapporto col divino attraverso lo spazio e il tempo che appartiene alla dimensione profonda dell’ebraismo. A questo risultato contribuisce certamente anche la grande bellezza di alcuni testi, tesori poetici che meriterebbero un posto nella letteratura universale, e cui purtroppo le traduzioni italiane non fanno un servizio adeguato almeno sul piano del valore poetico, anche a causa della lontananza fra le lingue e le tradizioni poetiche.
Purtroppo la trama dei gesti e delle storie, dei segni e dei riferimenti poetici (a Kippur ma anche per tutte le feste e anche nella liturgia di Shabbat e dei giorni feriali) risulta in genere abbastanza oscura al pubblico ebraico medio, che la riproduce un po’ ciecamente, se è in grado di farlo, sulla base di una memoria del fare ricevuta per esperienza diretta da bambini. Manca, che io sappia, almeno in italiano, uno studio rigoroso della dimensione semiotica delle nostre ritualità (ce n’è più d’una, come si sa, parzialmente divergenti proprio al livello sensibile dei suoni, dei gesti, dell’ordine della liturgia) come tecniche della memoria e del percorso spirituale del fedele. E manca certamente una pedagogia matura della fitta trama di azioni e di parole che segnano la nostra partecipazione al rito, che la illustri e per ogni dettaglio metta in rilievo il valore e il significato, insomma una “pedagogia adulta” della preghiera ebraica. Eppure anche queste liturgie, anzi queste più di qualunque altra cosa, sono beni culturali ebraici, la vita stessa della nostra cultura.
Ugo Volli
19 settembre 2010