Israele: “Trattative, un appiglio di speranza”
Lo scetticismo domina nelle menti e nei cuori di israeliani e palestinesi, nel mondo degli esperti e dei diplomatici, circa un esito positivo della trattativa di pace appena avviata. Eppure è importante e confortante che, dopo una lunga e deprimente fase di stallo dai negoziati di Annapolis del 2007, costellata di episodi funesti, le due parti abbiano ripreso a trattare, con la mediazione e sotto la forte pressione degli Stati Uniti.
I sondaggi di opinione e le impressioni degli osservatori sul campo mostrano come nello stato d’animo dei due popoli dominino due sentimenti contrapposti. Da un lato, la consapevolezza che la soluzione di “due stati per due popoli” è l’unica possibile, e che essa esige la spartizione concordata di quella terra contesa e che il costo di un compromesso sui confini, Gerusalemme, gli insediamenti e il diritto al ritorno dei rifugiati è molto minore di quello del perpetuare lo status quo dell’occupazione e della violenza. Dall’altro, un pessimismo rassegnato, fatto di stanchezza, sconforto, frustrazione per i fallimenti trascorsi, circa la possibilità vera di un esito positivo del negoziato, per l’incapacità della classe politica delle due parti di pagare il costo della pace.
Per Israele, soprattutto, il momento è decisivo e la mancanza di una convinta mobilitazione dell’opinione pubblica e di un senso di urgenza per il futuro della nazione preoccupano. Nonostante ambiguità, diversivi dialettici e la naturale tentazione al procrastinare, dovrebbe essere chiaro che di tre cose – Israele come stato-nazione del popolo ebraico, Israele come democrazia, continua espansione delle colonie fino all’annessione di fatto della Cisgiordania –due sole si possono conseguire in un futuro non lontano.
O Israele rinuncia ai territori, sgomberando le colonie ed eventualmente negoziando uno scambio paritario di territori con il futuro stato di Palestina per quanto riguarda gli insediamenti più densamente popolati e prossimi alla “Linea verde” – Maaleh Adumin e Gush Etzion -, e conserva quindi la sua identità di stato “ebraico e democratico”, di stato, cioè, in cui gli ebrei sono maggioritari ma gli arabi godono della pienezza di diritti politico-civili di una minoranza nazionale.
Oppure, perpetuando l’occupazione dei territori, dà luogo a uno stato binazionale , in cui gli ebrei saranno minoritari in virtù della demografia, sacrificando quindi le fondamenta ideali e pratiche del sionismo.
Oppure, infine, annettendo i territori ma privando i palestinesi che vi risiedono di diritti civili e politici, conserva l’ebraicità dello stato, in un senso rozzamente etnico, ma in un regime di segregazione ed esclusione degli abitanti arabi che sarà bandito dalla comunità internazionale e segnato dalla guerra civile.
Per queste ragioni etico-politiche e di portata storica, il negoziato è oggi così decisivo e lo sforzo di mediazione degli Stati Uniti, con il sostegno della comunità delle nazioni, così essenziale. Né credo che si possa in questa occasione, diversamente dagli accordi di Oslo del 1993 e di altri successivi negoziati, mirare ad accordi interinali e provvisori. Si può, e certamente si dovrà, dare attuazione agli accordi con gradualità e con i necessari dispositivi di sicurezza; certamente, evacuare l’esercito e le colonie dalla Cisgiordania sarà un processo graduale. Il rimpatrio volontario dei coloni costerà molto al bilancio dello stato; indennizzi materiali saranno necessari. Sarà molto arduo evitare il confronto tra lo Stato d’Israele e i coloni più intransigenti, negli insediamenti più remoti e negli outposts sorti qua e là in contrasto con la stessa legge dello Stato.
Ma l’accordo dovrà riguardare lo “status” finale, e comprendere: i confini dei due stati; lo status di Gerusalemme, capitale fisicamente unita ma amministrativamente divisa dei due stati; il ritiro di circa 100 mila dei 300 mila coloni israeliani che risiedono in Cisgiordania, escludendo quindi coloro i cui insediamenti saranno oggetto di scambio di territori con lo stato di Palestina e coloro che accetteranno di vivere come minoranza ebraica in quello stato; il ritorno di una parte dei rifugiati palestinesi nel loro stato, tranne un numero limitato e già negoziato a Camp David e Taba nel 2000, che potranno unirsi alle loro famiglie in Israele e un numero rilevante di cui i paesi arabi dovranno accettare l’integrazione, invece della segregazione fisica e politica alla quale li hanno costretti dal 1948, con i dovuti indennizzi finanziari da parte di Israele.
Insomma, un quadro molto complesso. Sarebbe un forte e politicamente astuto atto di coraggio da parte dell’ANP di Abu Mazen, per ottenere subito la cosa principale – uno stato degno di questo nome -, offrire ad Israele di accettare grosso modo quelle condizioni, senza insistere su istanze massimaliste. La classe politica israeliana sarebbe costretta a scelte nette, rispetto alla sua opinione pubblica, agli Stati Uniti, all’Europa. La coalizione di destra al potere si sfalderebbe. Ne seguirebbe un governo più orientato al centro. Le possibilità di un accordo si farebbero più concrete.
Ragione, ragionevolezza, non solo il sogno utopistico della pace, spingono al negoziato, nonostante le immani difficoltà. L’estremismo degli oppositori del compromesso sarebbe sconfitto se il negoziato avanzasse. Per questo Hamas da una parte, i coloni più oltranzisti dall’altra agiscono per sabotare il negoziato. Ma, come disse Yitzhak Rabin nei primi anni ’90, occorre combattere il terrorismo come se la pace già ci fosse e mirare a un accordo di pace come se il terrorismo non ci fosse.
Giorgio Gomel