La lezione di Wiesenthal
Il quinto anniversario della scomparsa di Shimon Wiesenthal, caduto lo scorso 20 settembre, impone, innanzitutto, di rendere omaggio alla straordinaria lezione morale e civile di questo grandissimo protagonista del nostro tempo, grazie al quale la moderna civiltà dell’Europa e del mondo – se non ha, ovviamente, potuto conoscere una riparazione alla spaventosa ingiuria della Shoah – ha, almeno, recuperato un minimo di credibilità e di legittimità, mostrando come sia sempre possibile, anche di fronte al più irreparabile dei mali, credere nella Giustizia. Una Giustizia con la maiuscola, quella di Wiesenthal, e, in quanto tale, né ‘crudele’ né ‘misericordiosa’, ma unicamente sé stessa, ossia ‘giusta’: lontana, per ciò stesso, dalle due opposte forme di risposta al male che ne rappresentano, entrambe, la negazione: la vendetta e il perdono.
Wiesenthal, infatti, non praticò mai il proposito della vendetta – ossia del “male contro il male” -, e falso e ambiguo è stato l’appellativo di “cacciatore di nazisti” che gli si è voluto affibbiare: i responsabili di crimini orrendi, scovati nelle loro tane e nei loro rifugi, sono sempre stati consegnati ai legittimi tribunali di Paesi democratici, ove sono stati giudicati e condannati con tutte le garanzie previste dagli stati di diritto. Le pene inflitte hanno rappresentato, rispetto al male arrecato, l’equivalente di una goccia nel mare, e non hanno certo rappresentato alcuna forma di risarcimento per i milioni di vittime della barbarie nazista: ma è proprio grazie a questa goccia, a questa incrollabile fiducia nella possibilità, almeno teorica, di un’umana giustizia, se la parola ‘diritto’, dopo la Shoah, ha conservato ancora, nonostante tutto, un significato.
Ma, così come il rifiuto della vendetta, dalla lezione di Wiesenthal deriva, altrettanto forte e “non negoziabile”, il rifiuto del perdono (ossia dell’oblio, della remissione del male), che, di fronte alle vittime di Auschwitz, suona come bestemmia e profanazione. Lo ha ricordato, con particolare lucidità e fermezza, Primo Levi, il quale, più volte interrogato (e talvolta anche sollecitato, quando non implicitamente rimproverato) intorno a questo tema, ha sempre ribadito, con limpido rigore, la sua missione di fermo custode della memoria, alieno dall’odio, così come dal perdono: “non ho perdonato nessuno dei colpevoli, né sono disposto ora o in avvenire a perdonare alcuno”. Giudicò ‘rivoltante’, Levi, la favola della cipollina, raccontata nei Fratelli Karamazov, ove si narra che una vecchia malvagia, al momento di essere avvolta dalle fiamme dell’inferno, viene tratta in salvo dal suo angelo custode, che le porge, affinché vi si aggrappi, una cipollina, che una volta aveva donato a un mendicante (unico atto di generosità nell’intera l’esistenza): “quale mostro umano non ha mai donato in vita sua una cipollina, se non altri ai suoi figli, alla moglie, al cane?”. E fece sue, invece, le parole di Ivan Karamazov, nello stesso romanzo di Dostoevskij, il quale, di fronte all’episodio di un bambino fatto sbranare dai cani del padrone, come punizione per avere involontariamente offeso la zampa di un cane, così commenta: “non voglio… che la madre s’abbracci col carnefice che ha fatto sbranare suo figlio dai cani!… Non voglio l’armonia: per amore stesso dell’umanità, non la voglio. Voglio che si rimanga, piuttosto, con le sofferenze invendicate. Preferisco, io, di rimanere nel mio stato di invendicata sofferenza e d’implacato scontento”.
Certo, l’“invendicata sofferenza e l’implacato scontento” non danno pace o consolazione (come proprio la tragica fine di Primo Levi sta a dimostrare). Ma non è compito della giustizia farlo, né rientra nelle sue possibilità. E, quanto al perdono, Wiesenthal ammonì che solo i morti possono concederlo. Che è anche l’unica riposta che può essere data a coloro che, ripetutamente, invitano, anche da alti scranni, a perdonare, “oggi per ieri”, “per procura”.
Francesco Lucrezi, storico