Davar Acher – Essere ebrei, un esercizio di memoria
Una delle particolarità di Sukkot è che viene precisato nella Torah che la mitzvà delle capanne serve “affinché i vostri discendenti sappiano che Io feci abitare in capanne i figli d’Israele, quando li feci uscire dal paese d’Egitto”. (Lv: 23,43). La festa è finalizzata alla memoria. In realtà il carattere memoriale vale per la maggior parte delle nostre feste, anche se talvolta è stabilito solo il simbolo intorno a cui organizzare la memoria (le matzot, i lumi di Hannukkah ecc.) o l’oggetto del ricordo (il dono della Torah, la sconfitta del progetto genocidio in Persia ecc.) e non è reso esplicito l’obbligo della memoria. Negli studi culturali recenti, a partire dai fondamentali contributi di Halbwachs, la nozione di memoria culturale è stata studiata a fondo, tanto da emergere come una delle funzioni sociali fondamentali, che spesso, non solo nell’ebraismo, è affidata alla religione. Ma nel Cristianesimo, per esempio, come nell’Islam e nel Buddhismo, si tratta del ricordo dei fatti di una persona; nel nostro caso vi sono le persone, naturalmente, ma la memoria verte sull’esperienza storica di un popolo.
Essa va distinta dalla storia, perché il suo scopo non somiglia affatto al modello originale della storiografia europea, “la ricerca di Erodoto di Alicarnasso, affinché né i fatti dagli uomini vengano ignorati con il tempo, né le opere grandiose e meravigliose, compiute sia dai greci, sia dagli stranieri, perdano gloria” [Erodoto Storie, I, 1]: un progetto celebrativo e cognitivo, fine a se stesso. La memoria culturale ha invece un senso pedagogico e simbolico, serve invece a preservare l’identità collettiva, e non si cura molto dei suoi stessi dettagli e in definitiva nemmeno del suo fondamento fattuale. Le ricerche dell’Arca di Noè sull’Ararat, che ai fondamentalisti protestanti apparivano come una possibile conferma che “la Bibbia aveva ragione”, esattamente come quelle contrarie degli archeologi revisionisti, i quali credono di dimostrare che essa avesse invece torto, solo perché non sono in grado di trovare tracce di mura cadute a Gerico o di accampamenti di seicentomila persone nel Sinai, ci appaiono fuori luogo perché smarriscono la differenza fra memoria culturale e storia. Il che non significa naturalmente che la memoria culturale si situi automaticamente solo nella dimensione mitica e non abbia verità storica. Al contrario, siano esatti o meno i dettagli narrativi, si tratta di cogliere un nesso molto complicato fra presente, passato e futuro, in cui i fatti assumono essi stessi una dimensione simbolica.
Nel versetto che ho citato, per esempio, se lo si prende alla lettera, si prescrive a una popolazione che vive nelle tende (presente narrativo) che i loro discendenti, fra cui noi (presente attuale, futuro narrativo) ricordino che nel loro passato attuale vi è stato questo presente narrativo, riproducendolo ma in maniera simbolica e magari purificata o esagerata (niente nel testo ci induce a pensare che le capanne degli scampati dall’Egitto rispondessero ai criteri molto stretti e assai poco funzionali che il Talmud prescrive per le nostre simboliche Sukkot, sicuramente è difficile pensare che in pieno deserto avessero dei “bei” cedri).
Lo stesso rapporto di piega temporale, cioè della previsione di un futuro che dovrà in un certo senso ri-agire quel presente narrativo che sarà il loro passato, si ritrova nelle prescrizioni di Pesach o alla fine della Megillat Ester, o nella prescrizione di ricordare Amalek per cancellarne il ricordo. E all’inverso esistono dei presenti che la narrazione proietta simbolicamente sul passato, come l’idea che i patriarchi passassero il loro tempo a studiare una Torah ancora da dare in yeshivot del tutto incongrue con il loro tempo e la loro vita nomadica. Queste differenze di tempo e di usi erano naturalmente ben presenti ai nostri saggi, che le ignorarono per indicare una continuità o stabilire una memoria culturale. Come spiegano i libri di Jan Assman e come in fondo tutti sappiamo, questa dimensione della memoria culturale è costitutiva dell’identità di una società spesso esiliata come quella ebraica, costituisce la nostra “patria portatile” (così Heine sulla Torah). Buona parte delle nostre regole servono a sostenerla, perché è davvero ebreo chi ricorda di esserlo, nella misura in cui lo ricorda.
Ugo Volli