…Simchat Torah
Con Sukkòt siamo nella settimana che si conclude con la festa di Simchat Torah,” la gioia della Torah”; in tutte le feste la gioia è, per così dire, di precetto, ma a Simchat Torah lo è in modo addirittura paradigmatico. Tutto bene, però, certo, come si fa a dare il precetto di “gioire”? Un amico israeliano poneva lo spinoso quesito: come si può gioire a comando? Forse, per questo, aggiungeva, i Maestri hanno statuito che bere vino e mangiare carne è sufficiente, giacché non si può ottenere la gioia, schiacciando semplicemente un tasto, come si cambia canale sul televisore.
La “gioia a comando”: ricorda il grido di Mike Bongiorno :”Allegria!!”, che, nel lontano passato televisivo, si levava dalle labbra del tecnocrate del divertimento di massa, suggerendo quanto grandi possano essere l’ottusità umana – e la crudeltà che ne è il necessario complemento – di fronte alla solitudine e alla sofferenza di chi si sente “tagliato fuori”. Però, parlando della “gioia della Torah”, si parla di fede. E la fede è una sfida continua a indovinare la polpa del frutto nascosta dietro lo spessore opaco della buccia (o “Kelipah”). Un po’ come l’amore umano, quando non è sola compensazione narcisistica. Fa vedere le scintille che ancora brillano sotto la cenere, laddove l’intelletto è abilissimo nell’analizzare la cenere in tutte le sue sfumature. I Maestri, che la fede l’avevano, hanno prescritto la carne e il vino come un invito al corpo ad agire e a sentire, per raccogliere le forze per quell’avventura eroica che è la gioia. Non alla mente, che è maestra di cavilli e di scappatoie, ma al corpo, questo grande sconosciuto sul quale, solo ora, cominciamo a riflettere… Uomini e cose conoscono la sofferenza; l’uomo si è inventato la gioia. Forse ha inventato anche la fede: invenzione eroica, alla faccia di Feuerbach e di Freud.
Marina Arbib, germanista