Francesco Maria d’Ippolito, maestro di Storia
L’ultima domenica di settembre, nella suggestiva cornice del Castello Svevo di Trani, è stata commemorata, da Andrea Lovato, Francesco Grelle e Tullio Spagnuolo Vigorita, la figura di Federico Maria d’Ippolito, il grande storico e giurista napoletano prematuramente scomparso quest’anno. Partecipiamo anche noi alla rievocazione del pensiero del Maestro, ricordando come egli, nel libro Modelli storiografici tra Otto e Novecento (ed. Satura, 2007), abbia magistralmente preso in esame e interpretato i contributi scientifici lasciateci di quella parte rilevante della storiografia tedesca che, negli anni Trenta, si compromise col nazismo. Suo grande merito è stato quello di porre al centro dell’attenzione una “zona oscura” della cultura del Novecento, che spesso si tende a evitare, in quanto, probabilmente, evocatrice di ferite ancora aperte, o irrimarginabili (o anche per evitare una dolorosa e scomoda riflessione sulla capacità del male di insinuarsi, incistarsi nel pensiero, seminando scorie nocive in grado di sopravvivere a quei regimi totalitari che quello stesso male avevano generato e diffuso).
D’Ippolito, in particolare, prende in esame la figura significativa dello storico Franz Altheim, la cui opera viene valutata anche alla luce delle taglienti e illuminanti considerazioni di Arnaldo Momigliano, il quale, nel denunciare la “mistura di misticismo e razzismo” presente nel pensiero di Altheim (oltre che di autori come Wilhelm Weber, Fritz Schachermeyer e Helmut Berve), denunciò le gravi conseguenze prodotte sulle scienze storiografiche dall’intorbidamento intellettuale nazifascista: “il vero male… fatto agli studi di storia antica non sta nelle sciocchezze che si dissero, ma nei pensieri che non furono più pensati”.
E’, questo, un aspetto particolare del rapporto tra cultura e nazismo, che va al di là del problema delle responsabilità individuali e di quello che d’Ippolito definisce l’“immane sopruso” subìto dagli studiosi ebrei, ma tocca la questione della capacità, da parte di un regime totalitario, di piegare dal di dentro l’animo umano, generando un’oscura deriva della coscienza: nel campo della storia antica, per esempio, il nazismo, nota l’autore, non solo corruppe l’acume degli studiosi, ma portò a una forma di ‘autocorruzione’, nel momento in cui indusse a ‘nazificare’ l’oggetto stesso dell’indagine, “reso prono alla volontà del potere di costruirsi una nobiltà nell’antico”. L’antichità classica, così, da terreno di ricerca diventa fonte di ideologia malata, sirena incantatrice in grado di sedurre i naviganti per poi farli naufragare.
Una storiografia deformante, quindi, tossica e inquinante, che avrebbe spianato la strada, creando una forma di subdola legittimazione intellettuale, agli orrendi crimini che sarebbero stato compiuti di lì a pochi anni. Le pagine di d’Ippolito, in tal senso, si rivelano particolarmente utili, e non solo sul piano storiografico, nel momento in cui contribuiscono a mantenere viva l’attenzione e il dibattito sulla responsabilità morale della scienza, e sul rischio, sempre presente, di una sua capacità di ‘autocorrompersi’, e di contribuire, più o meno coscientemente, all’inquinamento e all’oscuramento delle coscienze. Un rischio che non può mai dirsi definitivamente scongiurato, e il cui periodico riaffiorare impone – come insegna il Maestro – costante vigilanza.
Francesco Lucrezi, storico