Davar Acher – Scienza e Torah
Ma vale la pena davvero di interrogarsi sulle contraddizioni fra i dati accertati dalla scienza e il testo della Torah (o meglio quel che appare il testo a una lettura molto elementare, che cerchi di estrarne solo una cronistoria degli avvenimenti)? Nella tradizione ebraica ci sono molte ragioni per non sentire una tale urgenza. Intanto da sempre noi leggiamo il testo senza l’ingenuità dei fondamentalisti, ben sapendo che vi è uno spessore di interpretazioni che ci separano e ci congiungono ad esso. La Torah non è un giornale o un libro di divulgazione, fatti per una lettura a prima vista, il suo senso è sempre complesso e va approcciato con cautela, guardando alle specificità dell’originale ebraico e non alle banalizzazioni inevitabilmente introdotte nei processi traduttivi e tenendo conto che dall’inizio, già in parte nelle pieghe del testo stesso come per esempio nelle sue paraetimologie, vi sono interpretazioni di cui tener conto. Parte di queste interpretazioni, i cosiddetti midrash, hanno carattere narrativo e aggiungono dettagli spesso storicamente o fisicamente insostenibili; ma un’altra parte anche più autorevole ci induce a cogliere nel testo della Torah e nei midrash una dimensione simbolica o metaforica che va interrogata come tale per estrarne il senso.
E’ il caso emblematico delle riflessioni di un commentatore pur attaccato al significato letterale come Rashi sull’inizio di Bereshit, cui non solo nega il carattere strettamente cronologico (è il senso del famoso suggerimento della traduzione del primo versetto come “Al principio della creazione divina del cielo e della Terra ecc.” invece che “All’inizio D-o creò ecc.”), ma soprattutto della celebre questione sul perché la Torah inizi così invece che con il primo precetto collettivo per il popolo ebraico (“questo sia per voi il primo dei mesi”), ben dentro il sefer shemot. Com’è noto la risposta di Rashì, assai attuale, riguarda la proprietà eventualmente contestata della terra di Israele (che il Signore, sostiene il commento, avendo creato il tutto, può dare a chi vuole). Ma sia la domanda che la risposta mostrano come la Torah sia vista non come un testo disinteressato secondo il modello scientifico moderno, una storia o una storia naturale che vale per la mera esattezza rispetto ai fatti, ma essenzialmente come una guida per l’azione, il cui insegnamento ha valore per le sue conseguenze sull’azione degli uomini. Non appartiene all’ambito della filosofia della natura, ma della filosofia della storia e dell’etica.
E che i contenuti anche del grande prologo cosmologico della Torah riguardino la vita degli uomini, e non la conoscenza dei fatti naturali, è un sottinteso che corre per tutta l’ermeneutica ebraica. Chi nella tradizione potrebbe cercare di trovare un contenuto fisicamente ragionevole per quel grande principio morale che fa l’uomo argilla animata da un soffio, o per l’altro che lo fa “maschio e femmina”? Chi penserebbe sensato opporre le leggi dell’anatomia comparata alla narrazione di un serpente parlante (o viceversa) o quelle della meteorologia all’idea di un diluvio veramente universale? Chi calcolerebbe la resistenza statica dell’Arca, una volta caricata di coppie (o settuple) di elefanti e ippopotami e rinoceronti?
La tradizione ebraica è perfettamente consapevole, ben prima dell’inizio della scienza moderna della necessità di interpretare in maniera metaforica certi passi, per esempio quelli che antropomorfizzano la figura divina (così Maimonide), o quelli che implicano contraddizioni (Ibn Ezra), sulla base della sentenza talmudica per cui “La Torah parla il linguaggio degli uomini” (Rabbi Ishmael) e dunque non può che descrivere e spiegare il mondo secondo i filtri culturali correnti; o di poterli spingere molto lontano dal loro significato “giornalistico”, verso ambiti del tutto non empirici, come fanno lo Zohar e molti altri commenti “mistici”.
Insomma l’idea che sia necessario abbandonare le grandi immagini e le loro complesse e per nulla banali narrazioni della prima sezione della Torah per non entrare in conflitto con la scienza propone un rimedio troppo drastico; fra l’altro bisognerebbe buttar allora anche l’Esodo per la divisione del Mar dei Giunchi, per il parlare “bocca a bocca” di Moshé e del Signore e per i molti miracoli; e poi anche fare i conti con l’arresto del sole ad opera di Giosuè, che costò la scomunica a Galileo e con mille altri dettagli “imbarazzanti” per la scienza o l’archeologia. Il punto non è decidere se queste narrazioni sono vere alla lettera, contro la scienza o sono falsità. E’ più opportuno forse rendersi conto dell’esistenza in tutte le società umane di diversi tipi testuali e di differenti pretese di senso che li caratterizzano: la teoria del Big Bang o della formazione planetaria della Terra o dell’evoluzione biologica sono delle descrizioni fattuali che contengono il meglio della nostra comprensione dei fatti che hanno dato origine al nostro ambiente; i primi due capitoli della Torah elencano in estrema sintesi una visione etica e spirituale del nostro rapporto con questo contesto, mettendone in luce il valore e la dimensione creaturale. La comprensione del senso della Torah appartiene all’ermeneutica, non alla fisica o alla biologia o all’archeologia. Dato che tutto questo per i nostri maestri è chiaro da secoli e secoli, bisogna fare attenzione a non subire l’egemonia dell’ingenuo e intenibile letteralismo protestante e continuare a leggere la Torah come qualcosa che dà insegnamenti sull’umanità e sul popolo ebraico, non sulla struttura materiale del mondo.
Ugo Volli