Fecondazione e Nobel, la differenza ebraica
“Edwards ha rivoluzionato la vita di migliaia di persone, dando loro la possibilità di avere figli” spiega rav Gianfranco Di Segni, biologo molecolare del CNR e docente al Collegio Rabbinico di Roma. A poche ore dall’assegnazione del Nobel per la medicina al padre della fecondazione assistita Robert Edwards, diverse sono state le reazioni per la decisione del Karolinska Institutet di Stoccolma. Il Vaticano, ad esempio, ha duramente criticato la scelta di premiare lo scienziato inglese che nel 1978 riuscì ad eseguire la fertilizzazione in vitro o in provetta. Da allora almeno quattro milioni di bambini sono nati attraverso la fecondazione assistita, “una tecnica – come si legge nella motivazione dell’assegnazione del Nobel a Edwards- che ha avuto fortissime ricadute nella società”. Ma qual è il punto di vista ebraico su questo delicato tema di bioetica? Ne discutiamo con rav Gianfranco Di Segni, uomo di scienza e di religione.
Se si pensa che il problema della sterilità colpisce oltre 10% delle coppie nel mondo, si comprende l’utilità della scoperta di Edwards. Ma qual è la posizione dell’ebraismo in merito alla questione della fecondazione in vitro?
Dal punto di vista religioso, il problema della soluzione dell’infertilità è visto in modo diverso tra mondo ebraico e mondo cattolico. Anzi, direi che nel campo della bioetica questo è proprio il punto su cui c’è la maggiore differenza. Nell’ebraismo la fecondazione assistita è permessa principalmente per tre motivi: innanzitutto, c’è a monte un approccio positivo nei confronti delle scienze bio-mediche. L’ebraismo ha sempre visto l’uomo come partecipe all’opera della creazione. In questo caso dunque non vi è una intromissione da parte dell’uomo nel corso della natura ma una “collaborazione” con il Creatore.
Inoltre, è noto il precetto biblico “crescete e moltiplicatevi”. Avere figli è una mizvà e chi non riesce ad averne non può mettere in pratica questo precetto. Per questo la fecondazione in vitro ha avuto molto successo nel mondo ebraico, in particolare fra i religiosi che si rivolgono molto spesso alle cliniche israeliane, poli di eccellenza in questo campo. Con l’aiuto della scienza, l’uomo riesce ad adempiere il proprio dovere di fare figli.
Infine, nell’ebraismo l’embrione, prima di quaranta giorni dal concepimento, è considerato mera acqua. Per cui, durante la fecondazione in vitro, l’embrione non ha ancora acquisito lo status di persona: non si sta manipolando un essere umano. Inoltre, il fatto che l’embrione non sia ancora stato inserito nel grembo materno è un ulteriore motivo per considerare lecita la tecnica. Bisogna però ricordare che gli embrioni non possono essere prodotti appositamente per la ricerca scientifica, e la liceità della tecnica dipende anche dalla sua finalità.
Quali sono i problemi dal punto di vista della Halachà in merito alla fecondazione assistita?
Le difficoltà sorgono soprattutto per quanto riguarda la fecondazione eterologa, ossia nel caso in cui il seme o l’ovulo provengano da una terza persona estranea alla coppia. La questione, è necessario sottolinearlo, non è l’adulterio: il figlio nato dal seme che non appartiene al marito non è considerato mamzhèr, adulterino, perché non vi è stato alcun contatto sessuale. Il problema della fecondazione eterologa è la possibilità in futuro che eventuali figli dello stesso donatore o donatrice si incontrino e, non sapendolo, abbiano un rapporto incestuoso. Altro problema nasce dall’introduzione nella coppia di un elemento estraneo, il che potrebbe causare un danno morale e psicologico all’equilibrio della famiglia. Si prende inoltre in considerazione il diritto del bambino ad avere padre e madre chiaramente identificabili, che con la fecondazione eterologa verrebbe a mancare. Per questo l’Halacha sconsiglia fortemente l’adozione della tecnica della fecondazione eterologa.
Daniel Reichel