Quel mondo sommerso che si rivolge a noi
Le vicende dei marrani continuano a destare l’interesse dell’Italia ebraica. Torino ha dedicato un convegno, organizzato dalla Comunità locale insieme all’Amicizia ebraico-cristiana, il cui intento era anche quello – come ricorda in un saluto introduttivo il presidente Tullio Levi – di celebrare il cinquecentesimo anniversario del Gherush degli ebrei dell’Italia meridionale.
Due illustri studiosi, Cesare Colafemmina, docente di letteratura ebraica, e Marco Morselli, studioso di filosofia delle religioni, hanno guidato un lungo percorso di riflessioni sulla storia delle persecuzioni, degli esili, delle conversioni forzate degli ebrei del Mezzogiorno, e sulle problematiche che tali vicende pongono ancora oggi. Ad affiancarli erano presenti due rabbini, il rav Luciano Caro e il rav Scialom Bahbout, entrambi conoscitori del Sud ebraico e impegnati nelle relazioni con esso, nonché un rappresentante laico delle istituzioni dell’ebraismo italiano, il consigliere UCEI con delega alla cultura Victor Magiar.
Apre i lavori un intervento – quello del professor Colafemmina – di carattere prettamente storico.
“Il 1510, di cui quest’anno ricorre il cinquecentenario – chiarisce il professore – è una data più che altro simbolica, perché in realtà la cacciata degli ebrei del Meridione fu un processo durato molti decenni”. Cominciato dal 1492, quando gli spagnoli, strappata Granada ai mori, decisero di unificare il loro regno, se non per quanto riguarda la lingua, per lo meno “d’arme e d’altar”; tale processo si protrasse fino almeno alla metà del sedicesimo secolo.
“Cacciati dalla Sicilia – spiega Colafemmina, eseguendo, a suffragio della sua lezione, letture in lingua originale delle prammatiche dell’amministrazione partenopea dei primi del ‘500 – gli ebrei trovarono accoglienza presso Ferrante I, re di Napoli”. I tempi duri arrivarono poco dopo. “Ferdinando il Cattolico – continua il professore – decise di estendere l’Inquisizione e la sua politica di epurazione religiosa a tutta l’Italia del sud: nel novembre 1510 fece giungere a Napoli disposizioni per cui, entro sei mesi, tutti gli ebrei e i neofiti, i conversos, avrebbero dovuto abbandonare il regno e non farvi ritorno mai più. Queste misure servivano a preservare la fedelissima città di Napoli e la sua santa fede cattolica”.
A conclusione del suo intervento il professore Colafemmina legge alcune pagine di una Haggadah di Pesach scritta in dialetto pugliese, o meglio, in caratteri ebraici che traslitterano il volgare parlato nel tacco dello stivale cinque secoli fa.
Intorno alle vestigia dell’ebraismo del Meridione parla anche rav Caro, rabbino capo di Ferrara e cittadino onorario di Siracusa. “Se è vero che stiamo riscoprendo importanti tracce della presenza ebraica in Sicilia, come le molte case di Salemi con l’incavo per la mezuzah, per fare un esempio, su parte dei ritrovamenti io nutro seri dubbi”. I dubbi di rav Caro riguardano soprattutto i molti mikvè, le vasche per i bagni rituali, rinvenuti di recente in Sicilia. “In quella meravigliosa isola c’è molto da lavorare, per chi vuole studiare la presenza ebraica, ma bisogna anche fare attenzione a persone poco competenti, oppure interessate ad attirare attenzione e turismo”. In forza del suo lungo impegno sul territorio siciliano, rav Caro ha potuto raccontare – destando la curiosità del pubblico – di numerosi incontri interessanti, aneddoti e scoperte della gente del luogo con supposte ascendenze ebraiche: “Un tale di un paesino dell’entroterra siculo mi ha raccontato che sua nonna, il sabato sera, accendeva le candele. La cosa interessante è che la nonna diceva sempre ai suoi nipoti di non parlare fuori casa di questa usanza: questa autocensura prova che si trattava proprio di un retaggio di un’abitudine segretamente mantenuta dai marrani”.
Rav Bahbout, dopo aver introdotto al pubblico le problematiche di carattere alakhico sollevate da coloro che a distanza di molte generazioni rivendicano, presso un’autorità rabbinica, la loro identità ebraica, ha lanciato una provocazione. “Se vogliamo recuperare l’ebraismo del Mezzogiorno, il lavoro da fare al sud è molto grande, ci vuole un progetto che coinvolga storici, antropologi, ricercatori e rabbini. Siamo ancora molto lontani da un tale obiettivo. Temo – ha dichiarato, scettico, il rav Bahbout – che all’ebraismo italiano manchino le risorse umane per rispondere adeguatamente a questa sfida”.
A prendere la parola subito dopo è il consigliere UCEI Victor Magiar, che da due anni lavora su questo fronte. “Esiste un mondo sommerso – dice il consigliere – che si rivolge a noi con domande e richieste. Questo mondo sommerso è fatto di persone che, comunque le vogliamo chiamare, in qualunque categoria le vogliamo inserire, sentono di far parte del popolo ebraico e della sua storia”.
“Di fronte a ciò – prosegue Magiar – le istituzioni ebraiche non possono, né vogliono, rimanere indifferenti”. Ha poi espresso l’auspicio che “questa importante sfida sia giocata dell’ebraismo italiano a fianco del Meridione, delle sue università”. “È un impegno che deve coinvolgere tutti, non solo noi ebrei – ha concluso il consigliere UCEI – perché riguarda un pezzo della storia d’Italia, della storia del Mediterraneo, la quale, segnata da una straordinaria promiscuità di culture, lingue e religioni, può ancora oggi insegnarci qualcosa sul vivere insieme”.
Manuel Disegni