Voci a confronto
In una giornata di relativa “tranquillità”, senza i titoli degli strilloni che rimbombano nelle nostre orecchie, partiamo dalle notizie di minore eco, quei francobolli che si ritagliano dalla carta stampata ma che, nella loro apparente irrilevanza, assurgono ad indice di una condizione che va diffondendosi e accomunando realtà tra di loro anche molto diverse. Sull’Avvenire e l’Unità di ieri si riporta la protesta, non importa da quale parte politica provenga, per gli effetti dei cosiddetti «tagli lineari» imposti dalla legislazione finanziaria, laddove il museo nazionale dell’ebraismo di Ferrara si vedrebbe decuratata del 30% (così per l’appunto secondo l’articolo) la quota di fondi di sua competenza. La notizia, per chi opera nel settore, non sorprende oltre misura. Semmai, dato lo stato di fibrillazione dell’intero comparto, benché indichi una proporzione corposa delle sue entrate, racconta dello stato di sopravvivenza dell’istituzione, la quale dovrà ridimensionarsi di certo, ma non chiudera, almeno non da subito. (O diciamo che ce lo auguriamo.) Per molti altri enti, invece, le cose si stanno disponendo in ben diverso modo e l’orizzonte che va configurandosi è quello di una ineluttabile conclusione delle proprie attività. C’è di chi riflettere, anche in ambito ebraico, sull’evoluzione del quadro dell’offerta culturale, sempre più compressa da vincoli di bilancio che ne stanno di fatto strozzando qualsiasi futura espressione. Poiché l’investimento che è stato fatto in questi decenni, anche a volte con spinte contrastanti e con riscontri illineari, ma pur nell’intimo convincimento della sua necessità, è stato propriamente quello di consolidare l’immagine (e la sostanza) della presenza ebraica in quanto deposito culturale non solo di una comunità numericamente minoritaria ma dell’intera storia italiana. Insomma, gli ebrei come specchio della penisola, in non meno di duemila anni di storia. Tale impostazione ha trovato in innumerevoli occasioni la sua materializzazione: convegni, rassegne, festival ma anche e soprattutto musei, enti di studio e ricerca, biblioteche e così via. I tagli alla cultura rischiano ora di ritorcersi contro questa stessa impostazione, togliendo ossigeno ad un attività che da non pochi è malamente intesa come “voluttuaria” mentre invece costituisce, per molti versi, il tessuto connettivo della società, ciò che mette in comunicazione parti altrimenti diverse e potenzialmente estranee (se non in prospettiva ostili). C’è chi ha detto che la cultura non è un lusso: non si tratta di una facile affermazione di principio. Dietro questo dire c’è un riscontro, ancorché difficoltoso per molti, ovvero che essa è lingua comune, condivisione di codici di comunicazione, costruzione di piani di confronto e scambio. Tutte le politiche della memoria, per intederci, si nutrono di questo presupposto, senza il quale non solo non c’è ricordo del passato ma viene a mancare qualsiasi piano prospettico, qualunque orizzonte in divenire. Ed una società, tanto più se si vuole democratica, o ha la forza di guardare oltre di sé oppure rischia di ripiegare in se stessa, alimentando le sue contraddizioni. Ridurre la cultura a una sorta di sgradito competitore (leggasi: di ambito in cui si consumano indebitamente le risorse che dovrebbero essere spese altrimenti, ad esempio nel «sociale», come se la cultura medesima non parlasse alla e della società) da eliminare o, comunque, da tagliare drasticamente, in quanto voce in sovrappiù, implica fare scontare all’intera comunità nazionale un passo indietro. I cui effetti si misureranno da subito con il decremento di posti di lavoro nel settore (che produce risorse, non solo consumandole), per poi innescare una spirale di impoverimento del tessuto civile. Detto questo, se di cultura – o di immagini che demandando alla cultura storica – parliamo, soffermiamoci allora sulla fiction «sotto il cielo di Roma» che domenica e lunedì i telespettatori vedranno sugli schermi della prima rete della Rai. L’occasione ci è offerta, questa volta, dall’intervista di Eugenio Arcidiacono a Paolo Mieli, comparsa su Famiglia Cristiana di giovedì. Già se ne erano occupate altre testate nei giorni scorsi, con una netta polarizzazione di giudizio. A favore della produzione (laddove la discriminante manifesta è l’adesione o meno ai fatti storici ma quella implicita è il giudizio morale e politico su Pio XII), com’era prevedibile, si sono schierati quanti si sentono più prossimi al mondo cattolico o ne condividono le sue sensibilità, come Andrea Tornielli su il Giornale ma anche Carlo Lizzani su il Messaggero (un regista uso al ricorso al registro drammaturgico di taglio personalistico, come nel suo «Mussolini ultimo atto»), entrambi del 26 ottobre, insieme a Tiziana Lupi su TV sorrisi e canzoni datato 30 ottobre (in quest’ultimo caso con un titolo apologetico: «Pio XII, il Papa che salvò gli ebrei»). Con tono più sfumati si è invece pronunciato Andrea Ricciardi in un articolo di Paolo Conti su il Corriere della Sera, sempre di martedì scorso. Molto più dura la Padania in un articolo del giorno successivo, il 27 ottobre, dove si parla di «fiction pilatesca». L’entusiasmo espresso da Mieli, che della sceneggiatura e della produzione è stato anche consulente, è destinato a confrontarsi con le voci critiche che di certo non mancheranno dopo che il film sarà stato visto da milioni di italiani. Poiché non solo la figura di Eugenio Pacelli da almeno quarant’anni e più (a partire dagli esiti del Concilio Vaticano II, oltre che da «Il vicario», la fin troppo citata opera teatrale di Rolf Hochhuth del 1963, dove veniva vagliato criticamente l’atteggiamento di Pio XII nei confronti dei delitti del nazismo) polarizza i giudizi ma perché è certo che le immagini dello film televisivo si confonderanno con gli ancora freschissimi, e contraddittori, esiti del Sinodo sul Medio Oriente. Delle diverse affermazioni di Mieli quella che allo storico può risultare come la meno plausibile è soprattutto il passaggio in cui afferma che «nessun leader antifascista fece ciò che si rimprovera al Papa di non avere fatto, così come nessun gruppo di partigiani cercò di fermare i treni che portavano gli ebrei ai campi di concentramento». L’implausibilità demanda al fatto che nessun leader antifascista aveva all’epoca la forza evocativa, il magistero morale, la capacità comunicativa del Pontefice. Non di meno, se il Vaticano era al corrente della tragedia che si stava consumando, ossia la deportazione in funzione dello sterminio, non la stessa cosa poteva essere detta di molti esponenti di una Resistenza, quella italiana, che solo in quelle settimane andava difficoltosamente organizzandosi, e soprattutto nel nord d’Italia. Il «sabato nero» della comunità romana non vedeva, tra i suoi attori, gli antifascisti, ben lontani dall’essere un soggetto d’interposizione, presi com’erano, anch’essi singolarmente, dalla morsa dell’occupazione tedesca e – non dimentichiamocelo – neofascista repubblicana. Quanto al riscontro dell’assenza del partigianato nel fermare i convogli diretti verso le fabbriche della morte (ma non fu così in altre parti d’Europa), pare essere soprattutto il riflesso di una lettura dei trascorsi con le lenti del presente, investendo in ciò che (non) fu, perché non poteva essere, ciò che vorremmo fosse invece stato. La Resistenza, a Roma, sarebbe intervenuta successivamente, e in maniera forse anche contraddittoria, come i fatti di via Rasella in parte si sono incaricati poi di dimostrare. Di come però la raffigurazione artistica possa risultare difficile, poiché non priva di rischi di cristallizzazioni, se non addirittura di equivocità, ci parla anche Walter Rauhe sul Messaggero di oggi nel merito della visitatissima (e non meno apprezzata o confutata) mostra berlinese «Hitler e i tedeschi. Comunità nazionale e crimine». La questione è ripresa, con ampi commenti, da Gian Enrico Rusconi su la Stampa. Sempre sul versante storico, infine, o per meglio dire del giudizio sulla storia, merita un’attenta lettura l’articolo di Angelo d’Orsi su il Fatto quotidiano di giovedì 28 ottobre poiché, nel caso dell’oggetto del medesimo (il negazionismo), è interessante notare come l’autore, pur esprimendo un principio più che lecito (la sua indisponibilità ad una legge che ne sanzioni la punibilità), da subito sembra fare sue proprio alcune delle ambiguità dei discorsi che fanno da indiretto corredo a un’area di “pensiero” che di storiografico ha nulla. A partire dall’equivalenza valoriale tra quelle che rischiano così di diventare ipotesi contrapposte ma parimenti legittime (“olocausto sì”, “olocausto no”), passando per un richiamo alla libertà di manifestazione del pensiero che diventa licenza («nella società liberale tutti possono dire quello che vogliono, se non si tratti di ingiurie […] o di istigazione a delinquere»: e se il negazionismo, per la sua deliberata e conclamata assenza di fondamento, ricadesse in queste fattispecie giuridiche?) non senza avere dato per assodata l’ambigua affermazione che parla di «uso politico dell’Olocausto» come di un fatto ovvio e scontato. Il che, ci permettiamo di obiettare, richiede invece quanto meno un supplemento di riflessione. Forse una risposta, sia pure indiretta, al discorso negazionista ce la potrebbe offrire il nuovo romanzo di Umberto Eco, dedicato all’idea di storia come complotto, con anticipazioni sia su l’Espresso che su la Repubblica di oggi come, per il tramite del commento di Gad Lerner, ancora sul medesimo quortidiano. Sul canovaccio del sesto romanzo di Eco si esercita anche Furio Colombo per il Fatto quotidiano. A corredo delle anticipazioni, si legga anche l’intervista che Wlodek Goldkorn fa, sempre sul medesimo settimanale, all’autore e a Riccardo Di Segni. Ma i libri sconfiggeranno il male?
Claudio Vercelli