Voci a confronto
Settimana intensa e problematica, quella che si è conclusa nei giorni scorsi e che lascia presagire difficoltà nei tempi prossimi a venire. Concentriamoci sulla chiusura dei lavori del Sinodo della Chiesa Cattolica dedicato al Medio Oriente del quale, sui giornali di questi giorni, è stato dato ampio resoconto. L’articolazione dei lavori, com’è di prassi in questi casi, è stata robusta. Centosettantre padri sinodali ne hanno preso effettiva parte, per poco meno di tre settimane, con un corposo numero di sessioni generali, quattordici, e centoventicinque interventi, tenutisi quasi tutti alla presenza del Pontefice. Le testate uscite ieri riportano le sintesi e i resoconti di Roberto Monteforte per l’Unità («Una patria per i palestinesi»), di Carlo Marroni su il Sole 24 Ore («mettere fine all’occupazione israeliana»), del Giornale («la Bibbia non giustifica Israele»), di Gian Luigi Vecchi per il Corriere della Sera («Israele non usi la Bibbia per continuare l’occupazione»), di Giacomo Galeazzi su la Stampa («La Bibbia non giustifica l’occupazione israeliana») e di Marco Ansaldo per la Repubblica, dove si sottotitola, significativamente, sul fatto che «non c’è più un popolo eletto. Non esiste una Terra promessa che autorizzi l’esilio». Basterebbero già queste poche parole per capire qual è stato il registro dominante nella grande assise. Peraltro già sabato 23 ottobre Giulio Meotti, su il Foglio, aveva ripreso le parole critiche di alcuni commentatori (Pacifici, Riccardi, Parsi e Nirenstein). Sui giornali di oggi campeggia infine la risposta israeliana, affidata alle parole del viceministro degli Esteri Danny Ayalon, il quale ha seccamente affermato che l’«assemblea sinodale è stata presa in ostaggio da una maggioranza anti-israeliana». Così nei resoconti di Franca Giansoldati per il Messaggero, Gian Guido Vecchi su il >Corriere della Sera, Andrea Tornielli per il Giornale, Marco Ansaldo su la Repubblica, Francesco Peloso su il Secolo XIX, Giacomo Galeazzi per la Stampa e Roberto Monteforte su l’Unità. La critica è netta e demanda ad uno scenario, quanto meno per immediata associazione di idee, che già si consumò in altre assemblee internazionali, come ad esempio durante la conferenza sul razzismo delle Nazioni Unite a Durban, laddove si costituirono da subito consorzi di delegati il cui obiettivo non era una franca e sincera discussione nel merito dei problemi sul tappeto ma la formulazione preventiva di una condanna, senza appello, rispetto ad Israele. Per andare alle fonti, una sintesi, di parte cattolica, è quella offertaci da Gianni Cardinale su l’Avvenire di domenica 24 ottobre, dove è resocontato l’«incontro conviviale» tra Joseph Ratzinger e i partecipanti all’evento sinodale in sua conclusione. Ne deriva, già alla lettura del solo articolo, la percezione che i documenti che sono scaturiti dalla conclusione dal Sinodo, il Messaggio finale e la bozza ufficiosa delle quarantaquattro Proposizioni, che costituiscono la base per l’Esortazione apostolica post-sinodale, saranno fonte non solo di discussione ma anche di dissidi in divenire. E questo non nel corpo della Chiesa medesima, che pure si muove secondo logiche pluralistiche, ma nei rapporti con ciò che si confronta con essa, non appartenendole, a partire dallo stesso mondo ebraico. Che rischia di trovarsi nell’occhio del ciclone, trovandosi ora un fianco scoperto nel giudizio espresso riguardo ad Israele. Nella conferenza stampa di chiusura, infatti, l’arcivescovo Cyrille Salim Bustros, presidente della Commissione per il Messaggio sinodale ha dichiarato, in piena sintonia con il documento finale, che «non è permesso ricorrere alle posizioni bibliche e teologiche per giustificare l’ingiustizia». Una affermazione senz’altro sottoscrivibile se non facesse da corredo, e qui subentra l’aspetto problematico, a quella per cui «la promessa di Dio nell’Antico Testamento sulla Terra Promessa è stata abolita dalla presenza di Cristo che ha stabilito il Regno di Dio». Dichiarazione secca, inemendabile e, del pari, ineccepibile solo da un certo punto di vista cristiano. Che non ha poi neanche quel segno di universalità che vorrebbe invece offrire. A rinforzare la polemicità intrinseca al primo passaggio si aggiunge una successiva affermazione che rafforza e contestualizza il concetto di fondo, esplicitandone il vero contenuto: «non ci si può basare sul tema della Terra Promessa per giustificare il ritorno degli ebrei in Israele e la espulsione dei palestinesi». In realtà quest’ultima espressione contiene due diversi concetti, anche se arbitrariamente concatenati: il secondo demanda all’esodo subito dalle popolazioni arabe e alla sua discutibilità storica, morale e politica, ovvero dei distinti ma correlati punti di vista nei quali può essere letto, interpretato e vissuto, anche a distanza di tempo, in quanto irrisolto dramma collettivo; il primo, invece, delegittima tout court l’intero impianto culturale (e morale) dell’esistenza d’Israele, laddove il rimando non è solo e tanto ad una tradizione religiosa, anche se così viene presentata nelle parole del presule, quanto ad una narrazione nazionale, ad una identità culturale che trae anche (ma non unicamente) dal rinvio alla lettura della Bibbia come fonte di ispirazione – ma non come modello ideologico – indispensabili fattori di propulsione e di indirizzo. Parrebbe quindi che il Sinodo si sia rivolto non solo a contestare la presenza israeliana in Cisgiordania – a conferma di ciò Salim Bustros aggiunge che «non bisogna basarsi sulla Sacra Scrittura per giustificare l’occupazione da parte di Israele della terra palestinese» – ma a riconsiderare nel suo complesso la valutazione da offrire allo Stato degli ebrei in quanto prodotto di un processo storico. Quanto questo possa corrispondere ad un mutamento di dottrina della Chiesa, piuttosto che al risultato dei mutevoli equilibri di una assemblea temporanea qual è il Sinodo, solo il tempo potrà dircelo. (Parrebbe che lo stesso Pontefice sia rimasto in qualche misura perplesso da certi toni. Ma si tratta solo di echi, riferiti in terza o quarta persona.) Di certo, però, in quella sede si è registrato un crescente divario tra importanti esponenti della Chiesa mediorientale e i propri interlocutori non cristiani. Un divario che ha assunto i toni dell’impazienza, se non dell’irritazione, e che ha portato ad un giudizio severissimo, che così configurato lascerebbe presagire tensioni in divenire con Gerusalemme. Un’ombra preconciliare sembra pertanto allungarsi sull’intero documento, indipendentemente dai richiami, senz’altro sinceri ma a questo punto non più sufficienti, alla necessità del dialogo interreligioso (ma non è questo il vero punto critico) e all’esercizio ecumenico (che rischia di divenire un nobile ma sterile confronto tra persone tanto bene intenzionate quanto impotenti nei fatti). Sempre su l’Avvenire di domenica Mimmo Muolo ci offre un résumé della discussione sinodale e dei suoi documenti, soffermandosi su quattro passaggi: la ricerca della pace, il rischio che i cristiani abbandonino il Medio Oriente (si parla di «emorragia dell’emigrazione»), il prosieguo del dialogo interreligioso e la condanna della «violenza e del terrorismo, di qualunque origine, e di qualsiasi estremismo religioso; di ogni forma di razzismo, antisemitismo, anticristianesimo e islamofobia» (laddove, significativamente, questi pregiudizi e risentimenti sono messi tutti sul medesimo piano, quasi a volere stabilire non solo una linea di continuità ma anche di reciprocità). In prima battuta viene quindi ciò che è definita come l’«esigenza della pace», laddove sono evocati gli effetti della sua mancanza sul «popolo palestinese che soffre le conseguenze dell’occupazione israeliana», alle quali vengono associate le «iniziative unilaterali che rischiano di mutare la demografia e lo statuto di Gerusalemme». In questo quadro il richiamo alle «condizioni di sofferenza e insicurezza nelle quali vivono gli israeliani» pare più una concessione di circostanza che non l’enunciazione di una consapevolezza piena e, come tale, fatta integralmente propria. Infatti, nel documento il rimando immediato, e non formale, è all’applicazione di tutte «le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza» delle Nazioni Unite e, soprattutto, a quelle «misure giuridiche necessarie per mettere fine all’Occupazione [la maiuscola sta nel corpo del documento sinodale] dei differenti territori arabi». Poiché in un documento di tale genere le parole sono sempre molto soppesate, anche nelle loro sfumature, non può non sfuggire l’ampiezza del rimando contenuto in quest’ultima, tendenzialmente ambigua proposizione poiché evoca, quanto meno implicitamente, una unitarietà dei territori medesimi la cui eventuale segmentazione non potrebbe che essere definita come la risultante dell’esistenza stessa d’Israele. Il successivo rinvio al diritto dello Stato ebraico di «godere della pace e della sicurezza all’interno delle frontiere internazionalmente riconosciute» è infatti immediatamente mitigato dal richiamo al fatto che «la Città Santa di Gerusalemme potrà trovare lo statuto giusto che rispetterà il suo carattere particolare, la sua santità, il suo patrimonio religioso per ciascuna delle tre religioni» monoteiste. Anche qui è netta la presa di distanza da uno status quo che è visto come foriero di contrapposizioni e di ingiustizie. Fatto in sé che ha il suo fondamento ma che non si risolve demandando ad uno dei soggetti in campo la responsabilità maggiore, senza contemperarla con quelle altrui, così come invece fa su la Monde del 20 ottobre lo scrittore libanese Dominque Eddé, denunciando la pur involontaria concomitanza, con l’assemblea sinodale, del tour politico di Mahmoud Ahmadinejad in Libano. In realtà il complesso passaggio che il Sinodo registra, sia pure sotto traccia, è il drastico consumarsi delle possibilità che si arrivi, un giorno, alla nascita di uno Stato palestinese perdurante l’attuale stallo, come segnala Laurent Zecchini su le Monde sempre di mercoledì scorso. A questa silenziosa consapevolezza risponde rilanciando la palla in campo israeliano ma sembra quasi volere dire che il giocatore non è abilitato a svolgere la partita poiché è estraneo al campo di gioco o, non meno peggio, non ne rispetta alcuna regola.
Claudio Vercelli
25 ottobre 2010