Qui Milano – A Tempio aperto

Galleria Vittorio Emanuele, uno dei luoghi simboli del capoluogo lombardo. Ogni giorno migliaia di persone, milanesi e turisti da tutto il mondo, transitano per l’Ottagono dove i due rami della galleria si incrociano. E lì, attratti dalle sfavillanti vetrine dello shopping milanese, dimenticano di alzare lo sguardo. Verso un piccolo tesoro della città e dell’ebraismo italiano che aspetta al primo piano di uno dei palazzi, la sinagoga Beth Shlomo.
Proprio con l’intento di far riscoprire una storia fondamentale del dopoguerra, è stato studiato il ciclo di incontri “A tempio aperto”, promosso dall’Associazione Amici di Israele e dallo stesso Beth Shlomo per accogliere la cittadinanza dentro quelle finestre su cui campeggia la menorah, il candelabro ebraico. Accoglierla e offrire spunti di riflessione sulla cultura ebraica in tanti suoi risvolti, dalla filosofia alla narrativa, dallo spettacolo all’umorismo.
Una volta al mese dunque le porte della sinagoga più centrale di Milano si spalancheranno, a partire da martedì 26 ottobre alle 20.15, quando interverrà, come ospite d’eccezione, il filosofo Massimo Cacciari, autore del libro “Io sono il Signore Dio tuo”, che discuterà il tema del Primo Comandamento insieme a Massimo Giuliani, docente di pensiero ebraico all’Università di Trento. A moderare il dibattito sarà Davide Romano, giornalista e segretario generale dell’Adi, nonché curatore del ciclo “A tempio aperto”.
Negli anni Trenta, con l’avvento di Hitler in Germania e con le conquiste naziste in mezza Europa, furono molti gli ebrei che trovarono rifugio in Italia. All’inizio della guerra oltre 1600 ebrei stranieri o apolidi furono internati nel campo di concentramento di Ferramonti, in Calabria. Nel campo i prigionieri mantennero un tenore di vita discreto e riuscirono a condurre un’esistenza ebraica, costituendo una scuola, un asilo, e soprattutto, una sinagoga. Quando Ferramonti fu liberato dagli Alleati nel 1943, molti dei prigionieri seguirono la Brigata ebraica dell’esercito britannico, combattendo al suo fianco nella conquista della penisola fino a Milano. Proprio a Milano nell’estate del 1945 fu assegnato alla Comunità ebraica palazzo Odescalchi in via Unione 5, dove transitarono clandestinamente migliaia di rifugiati ebrei per poi immigrare in Palestina. In due stanze all’interno dell’edificio i rifugiati fondarono un Beth Hamidrash (Casa di Studio) che prese il nome di She’erit Haplita’ (il resto dei sopravvissuti) in ricordo della sua tragica storia. Furono utilizzati gli arredi e i libri di studio della sinagoga di Ferramonti, nel frattempo trasferita a Milano dall’Esercito Inglese. Quando pochi anni dopo via Unione 5 chiuse i battenti per divenire sede della Questura, la Sinagoga continuò a funzionare grazie ad alcuni sopravvissuti che decisero di rimanere a vivere in città, trasferendosi in un locale vicino, ma conservando gli stessi arredi utilizzati in via Unione, le stesse sedie su cui sono ancora impressi i nomi dei primi frequentatori. Durante gli anni il Beth Hamidrash fu rinominato diverse volte in memoria di alcuni suoi sostenitori sino all’attuale nome in ricordo di Sally ( Shlomo ) Mayer. Il Beth Shlomo dunque, con i suoi arredi provenienti da Ferramonti e da quel primo nucleo storico di via Unione, rappresenta un luogo di inestimabile valore storico, per Milano, per la Comunità ebraica, per lo Stato d’Israele. Un luogo che ora rischia di scomparire per mancanza di fondi, nonostante si stia cercando un accordo con le autorità cittadine perché riconoscano la sua valenza a presidio della Memoria. “Nel momento in cui abbiamo saputo che il Beth Shlomo rischiava lo sfratto, ci siamo offerti di dare una mano per far conoscere questa meravigliosa sinagoga alla città e agli stessi ebrei milanesi – conclude Davide Romano – perché ha un enorme potenziale, ed è molto bella l’idea che venga aperta alla città, come centro di divulgazione di cultura ebraica”.

Rossella Tercatin