Grandi scrittori, visione irreale
Confesso che, ogni qual volta leggo su qualche giornale – e accade abbastanza spesso (da ultimo, in occasione del discorso pronunciato alla Fiera di Francoforte domenica 10 ottobre, riportato ne la Repubblica del giorno successivo – i commenti dedicati da David Grossman al conflitto medio-orientale, provo sempre una sottile, indefinibile sensazione di disagio, le cui ragioni appaiono a me stesso non pienamente chiare, ma sono essenzialmente riconducibili alla spiacevole divaricazione tra due moti d’animo di difficile conciliazione. Se è normale, infatti, essere in accordo o disaccordo con qualcuno, e anche avere posizioni intermedie, critiche o dialettiche, non è usuale nutrire, per la medesima persona, e nello stesso momento, sentimenti di profonda ammirazione e di netto dissenso.
Ammirazione, innanzitutto, per il grande talento dello scrittore: per quella prosa raffinata, leggera, soffusa di nostalgia, tenerezza, dolore, che ne ha fatto meritatamente una celebrità mondiale. Ma anche per la forza dei valori morali, e per l’infaticabile impegno profuso nel difenderli, sempre e dovunque. L’aspirazione alla pace, in Grossman, assume il carattere di un inderogabile imperativo etico, che scuote la coscienza di tutti gli uomini, richiamandoli a rifuggire da ogni forma di violenza, di sopraffazione, di rassegnazione, a riscoprire un destino comune di fratellanza, a ricordare la dimenticata appartenenza all’unica famiglia umana. Profondamente innamorato del suo Paese, Grossman lega le sofferenze del suo popolo a quelle dei suoi avversari, augurando a tutti un futuro diverso, con parole profetiche, che richiamano le più nobili tradizioni dell’umanesimo e dell’universalismo ebraico.
Quando, però, lo scrittore prova a descriverci, nello specifico, quel conflitto che tanto lo addolora, la visione che ne deriva appare del tutto irreale. La sua rappresentazione, infatti, è quella di due popoli, ostinati, da sempre, a combattersi, contro ogni logica di reciproca convenienza e utilità. Israele contro Palestina, israeliani contro palestinesi: sono sempre questi due, nella raffigurazione di Grossman, i protagonisti dell’assurdo, interminabile ‘duello’, e solo un’oscura follia, fatta scendere dagli dèi nelle loro menti, per offuscarle, pare impedire loro di raggiungere quell’obiettivo di pace che sembra così semplice, così vicino: eppure, ogni volta che si profila, finalmente, a portata di mano, viene sempre spinto, perfidamente, “un po’ più in là”.
Difficilmente, nelle sue analisi, Grossman menziona altri soggetti, quali la Siria, il Libano, l’Iran o, per esempio, la Malesia, e tutti quegli stati, magari lontani, che pure – spesso, molto più della Palestina – si dicono acerrimi nemici del suo Paese e del suo popolo. Difficilmente parla dell’antisemitismo europeo, delle continue condanne di Israele in sede di Nazioni Unite, delle dure posizioni ecclesiastiche, degli innumerevoli gesti ostili anti-israeliani compiuti da organizzazioni o gruppi che con i palestinesi non hanno assolutamente nulla a che fare. Così facendo, egli sembra cadere in pieno in quella specie di ‘trappola’ mediatica che, a partire dal 1967, ha cambiato le carte in tavola, sostituendo alla contrapposizione tra Israele e mondo arabo quella – propagandisticamente assai più efficace – tra Israele e Palestina, solo Palestina. Gli altri antagonisti sono come scivolati sullo sfondo, e la lotta, da uno contro venti, è parsa diventare “uno contro uno” (con uno dei due, evidentemente, molto più forte, e perciò più responsabile).
Un quadro monco, distorto, che deforma la verità storica, e non aiuta – al di là di ogni buona intenzione – a raggiungere delle possibili soluzioni.
Francesco Lucrezi, storico