“A spasso per Lucca con Eisner e altri miti”

Lucca Comics 2010 sta per aprire i battenti e per Vittorio Giardino, il grande maestro del fumetto italiano che ha dato vita a eroi ebrei indimenticabili come Max Fridman e Jonas Fink, è il momento di aprire il cassetto dei ricordi. Dal suo tavolo da disegno a Bologna ha ricostruito meticolosamente luoghi e incontri strettamente legati all’Europa ebraica, ora tornano alla luce alcune delle esperienze più significative della sua carriera, come il primo faccia a faccia con il mitico Will Eisner.
Giardino, che rapporto ha con Lucca Comics?
Ottimo. Ho tanti e splendidi ricordi relativi a questa rassegna, la più importante in assoluto su scala nazionale. La prima volta che partecipai ero agli inizi del mestiere. Avevo ambizione di fare fumetti professionali ma non avevo idea di come si facesse. Fu una rivelazione straordinaria vedere miti del fumetto in carne e ossa passeggiare per le strade di Lucca: all’epoca entrare in quella ristretta cerchia di professionisti mi sembrava un sogno irrealizzabile. Tanto che quando nel 1982 ricevetti lo Yellow Kid (il maggior riconoscimento del fumetto) al Teatro del Giglio il premio arrivò totalmente inaspettato. Le telecamere possono provare che ero seduto nelle ultime file del loggione. Quando arrivò l’annuncio impiegai una eternità per salire sul palcoscenico. Mi tremavano le gambe, anche perché nella giuria sedevano mostri sacri come Preccia e Pratt. Ricordo con emozione la cornice meravigliosa del Teatro del Giglio, un vero peccato che le premiazioni non si svolgano più al suo interno perché è un luogo pieno di suggestione.
Altri ricordi?
Qualche anno dopo ricevetti il mio primo premio da autore professionista. In quell’occasione veniva omaggiato anche il grande Will Eisner, a cui la giuria aveva assegnato un premio alla carriera. Eisner benché bravo a dissimulare mi parve comunque molto emozionato e quando lo incontrai in seguito a Bologna gli chiesi se la mia impressione fosse stata corretta. Lui mi rispose di sì aggiungendo sarcasticamente che avrebbe preferito ricevere un premio all’opera prima piuttosto che un premio alla carriera. Adesso che inizio ad avere una certa età, capisco appieno quella battuta, che non era solo spiritosa, ma anche molto realistica.
Qual è il suo padiglione preferito?
Ho una passione per il padiglione delle autoproduzioni, dove si trovano tanti ragazzi di talento che faticano a trovare un editore ma che sfruttando i moderni mezzi tecnologici riescono comunque a produrre in proprio. Lì è facile trovare lavori imperfetti, ma dotati di una grande carica di originalità, che spesso è maggiore rispetto a quella che si può riscontrare in situazioni più consolidate. Altra mia passione sono le mostre, anche se in realtà cerco di ficcare il naso dappertutto. Dopo un periodo di eclissi, non saprei dire se per colpa mia o per colpa del programma proposto, ho ripreso a frequentare la manifestazione e sono rimasto piacevolmente sorpreso dalla straordinaria affluenza di pubblico. Il rinnovato interesse dei lettori è indice della buona salute del settore dopo anni di crisi.
In che direzione sta andando il fumetto?
Per motivi generazionali sono legato a un modo di fare fumetti all’antica e non sono sempre al corrente delle ultime novità. Sintetizzando al massimo direi che dopo un primo momento in cui sembrava che i mezzi digitali avessero messo in crisi il fumetto, adesso ho la sensazione che vi sia una sorta di scambio osmotico di influenze reciproche. Il momento è senz’altro vivace ma un punto resta inderogabile: l’immaginazione visuale degli artisti fa sempre premio su tutto. Non c’è mezzo tecnologico che tenga, per quanto raffinato resta sempre un mezzo.
Come evolve la realtà italiana?
Mi sembra che ci sia la tendenza al formarsi di tribù stilistiche che hanno pochi contatti tra loro. Faccio un esempio: da una parte ci sono i disegnatori bonelliani che hanno evidenti vincoli stilistici, dall’altra giovani disegnatori che si rifanno al linguaggio graffiante dell’underground americano. Sono ambienti molto diversi, figli delle scuole di fumetto che tendono a settorializzare gli allievi, ma sarebbe bello se comunicassero perché ne verrebbero fuori delle belle.
E il fumetto d’autore invece come sta?
Nel panorama europeo ci sono paesi che sviluppano grande attenzione culturale e importanti volumi di vendita come Francia, Belgio e Germania oltre ad alcune realtà di recente vivacità tra cui cito volentieri la Spagna, ma ci sono anche noti dolenti come quelle che arrivano dal nostro paese, dove la situazione è assai complessa e arretrata. Ciò è in parte dovuto all’assurdo ostracismo e snobismo mostrato da chi si occupa di critica letteraria. In genere i critici non digeriscono il fatto che possano esistere fumetti con alto valore culturale. Così non li leggono. E se per caso gli capita di leggerne uno si guardano bene dal dirlo in giro quasi se ne vergognassero. Per i critici è come se i fumettisti d’autore non esistessero. La conseguenza è che i lettori spesso si stupiscono quando scoprono che abito a Bologna: sembra impensabile che uno viva in Italia e faccia delle cose buone in ambito fumettistico! Lo stesso discorso vale per Sergio Toppi e per altri grandi autori a cui raramente capita di essere profeti in patria. È un vero peccato che esistano barriere di questo tipo perché il fumetto d’autore conquista sempre più consensi tra uomini di cultura e semiologi, con l’esempio più noto di Umberto Eco che è stato il primo a portarlo nelle aule universitarie.
In conclusione, ottimista o pessimista sul futuro del fumetto italiano?
Direi ottimista, visto che il numero di lettori e dei giovani che provano a fare del fumetto il mestiere di una vita è in crescita. Il fatto che siano scelte maturate non per tornaconto economico ma per passione è un segnale importante. Sono tanti anni che disegno ma questa straordinaria propulsione dei giovani a disegnare per soddisfare un bisogno interiore è rimasta la stessa di quando ho iniziato.

Adam Smulevich