Davar Acher – Popolo, religione, fedeltà
C’è un tratto comune fra le recenti polemiche contro l’introduzione nella legislazione israeliana di un giuramento di fedeltà per i nuovi cittadini allo “stato ebraico e democratico” e il brutto libro di Shlomo Sand la cui traduzione italiana ha avuto nelle settimane scorse un forte lancio pubblicitario. Il tratto è esplicitato dal titolo del libro di Sand: “L’invenzione del popolo ebraico”. Chi ha polemizzato contro la nuova legge sul giuramento o sull’equivalente richiesta di riconoscimento nelle trattative coi palestinesi di Israele come stato ebraico, ha argomentato che non fosse democratico imporre a tutti i cittadini un’adesione religiosa. Perché il giuramento secondo loro avrebbe imposto questo, una scelta religiosa. L’ha fatto ovviamente l’autorità palestinese, l’hanno fatto i vescovi del famigerato sinodo appena concluso e l’hanno fatto anche alcuni ebrei, fra cui, si parva licet…, Tobia Zevi in una opinione pubblicata su questo sito.
L’idea comune a tutte questa posizioni è che la definizione di qualcosa come “ebraico” sia una qualificazione essenzialmente religiosa. Per dirla con la quarta di copertina del libro di Sand, “forse l’ebraismo è soltanto un’affascinante religione”. Lasciamo stare il “forse” che è farina del sacco dell’editore, Sand ne è sicuro; ignoriamo anche l’adulazione sul “fascino” dell’ebraismo, che non è seria. Resta l’affermazione centrale per Sand e i cosiddetti “postsionisti” che l’ebraismo è “soltanto” una religione – cioè niente per loro che non credono. Nessuno nega che l’ebraismo sia una religione, ci mancherebbe. Ma “soltanto” vuol dire soprattutto che non è anche altro, cioè che non è un popolo o una nazione. E una religione, per la sua definizione moderna, che si modella sul cristianesimo, in particolare su quello protestante, non ha e non deve avere diritto a governare una terra.
Sand ragiona da un lato accumulando ragionamenti più o meno bizzarri per dimostrare che le nazioni non esistono, che sono un’invenzione capitalistica dell’Ottocento al fine di manipolare le masse, cita per questo Stalin (con qualche critica minore ma sostanziale rispetto) oltre ad alcuni storici sociologi e antropologi ancor più ideologici di lui, se fosse possibile. Non ci sono le nazioni (non ci “devono” essere per il politically correct, come ha spiegato di recente su “Repubblica” Ulrich Beck, e secondo lui l’Unione Europea ha il merito di depotenziarle). A maggior ragione non deve esserci quella ebraica, come ha scritto anche qualche giorno fa un altro critico dell’idea di uno stato ebraico e democratico, Gad Lerner). Anche in questo la battaglia per Israele è una battaglia per l’Europa, sostiene Lerner: se il patriottismo ebraico non fosse sconfitto, rischierebbe di fallire l’operazione di denazionalizzazione dell’Europa, che è uno dei cardini della correttezza politica nel nostro continente.
In seguito Sand intesse un improbabile romanzo storico indiziario intorno al tema delle conversioni di massa all’ebraismo come quella dei Kuzari mille anni fa, da cui si dedurrebbe che gli ebrei attuali non sarebbero i discendenti di quelli biblici, anzi che i veri pronipoti dei patriarchi sarebbero i palestinesi: inversione tipica dell’odio di sé: noi non siamo nulla, i veri ebrei sono gli altri. Gli storici seri hanno stroncato la tesi di Sand, perfino la biologia mostra che esistono dei marcatori genetici che confermano la parentela degli ebrei di tutto il mondo al di là della dispersione.
Ma la tesi dell’inesistenza del popolo ebraico è troppo bella per essere abbandonata dal politically correct. Farebbe della creazione di Israele un’operazione coloniale o un risarcimento eccessivo e ingiusto per la Shoà, proprio come dicono gli arabi. Eliminerebbe la nozione di popolo eletto e la continuità dell’ebraismo con la vicenda biblica, proprio come vorrebbero vescovi come Williamson (il lefebvriano all’estrema destra della Chiesa) e Bustros e Sabah (i vescovi arabi che piacciono all’estrema sinistra). Permetterebbe perfino di eliminare il concetto di genocidio (senza un ghenos…) e di assimilarlo a una qualunque repressione ideologica di una corrente nemica al potere. Giustificherebbe la tradizione antigiudaica della Chiesa, che in fondo avrebbe sempre avuto a che fare con dei finti ebrei, dei giudeizzanti, degli eretici qualunque, da reprimere come tutti ad maiorem Dei gloriam. Spiegherebbe perché i progressisti di tutto il mondo devono giustamente diffidare di uno stato teocratico e di una finta nazione. Insomma, sarebbe un affarone per tutti. Salvo che per gli ebrei, naturalmente.
Eppure non è così. L’appartenenza all’ebraismo, non è solo religione, ma popolo e nazione. Tobia Zevi, che notoriamente viene da una famiglia piuttosto laica dovrebbe poterlo testimoniare personalmente, anche se la sua ideologia gli fa velo. Metà dell’ebraismo mondiale e forse più, soprattutto in Israele è pochissimo sensibile a faccende religiose. Il Tanach ci testimonia abbondantemente che il popolo ebraico nella storia ha spesso tradito la sua religione: pagandone il prezzo terribile, secondo la teologica politica biblica, ma restando comunque ebraico. La stessa narrazione della Torah ci mostra la rivelazione del Sinai come posteriore alla costituzione delle istituzioni politiche del popolo uscito dall’Egitto (i capi di dieci, di cento e di mille, suggeriti fra l’altro da uno straniero, Itrò). L’istituzione del regno contro il volere divino è un altro momento delle Scritture che attesta della coscienza antica di una duplicità fra religione e nazione. Insomma non solo nel disincanto religioso contemporaneo, ma nella stessa nostra tradizione religiosa risulta che l’ebraismo non è semplicemente una religione, ma una nazione e un popolo; e che di conseguenza non è affatto contraddittoria l’idea di uno stato ebraico e democratico e di conseguenza laico. Chi lo nega, anche all’interno dell’ebraismo come Zevi e Lerner, subisce semplicemente e riproduce l’egemonia della propaganda anti-israeliana.
Ugo Volli