Protocolli e verità

Colloquio con Riccardo Di Segni e Umberto Eco di Wlodek Goldkorn Nel suo “Il Cimitero di Praga”, Eco spiega com’è stato costruito il più noto dei pamphlet antisemiti. Ma non convince fino in fondo il rabbino di Roma. Che qui dice: il messaggio è ambivalente e pericoloso. L’autore risponde

Umberto Eco è sempre stato ossessionato dalla costruzione de “I Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, la madre di ogni pamphlet antisemita, pubblicato perla prima volta in Russia nel 1903. Ne aveva accennato nel “Pendolo di Foucault”, a quel testo aveva dedicato quasi un capitolo nelle Norton Lectures, “Sei passeggiate nei boschi narrativi”. Ha scritto pure una prefazione al celeberrimo comix di Will Eisner “Il complotto”. E ora la costruzione di quel falso, le cui origini risalgono a una certa letteratura francese della metà dell’Ottocento, e dove sarebbe documentato il presunto piano degli ebrei di dominare il mondo, è al centro de “Il Cimitero di Praga”. È un romanzo in cui Eco gioca con i cliché antisemiti ottocenteschi, per smontarli. “L’Espresso” lo ha fatto incontrare con Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma.
Perché è affascinato dai Protocolli?
Eco: «Perché sono sempre stati presi sul serio, mentre è un testo palesemente pieno di contraddizioni interne. Già nel 1921 il “Times” aveva dimostrato che era un testo in gran parte copiato da un libro di Maurice Joly ( “Dialogo all’inferno tra Machiavelli e Montesquieu”), che non era contro gli ebrei bensì contro Napoleone III. Ma Hitler ha continuato a ritenerlo autentico nel “Mein Kampf” e ancora oggi continua ad apparire nelle librerie filo-naziste o sui siti arabi. Il parere dominante è sempre quello dell’antisemita britannica Nesta Webster: “Sarà un falso, ma è un libro che dice esattamente ciò che gli ebrei pensano, quindi è vero.” Infine: credo di aver contribuito alla scoperta delle origini de “I Protocolli”. Ne ho trovato tracce in “I misteri del popolo” di Eugene Sue, e in “Giuseppe Balsamo” di Alexandre Dumas’..
II protagonista del suo libro si chiama Simone Simonini. Di mestiere fa la spia e il falsario. E un antisemita patologico. Finisce non solo per contribuire alla costruzione dei “Protocolli”, ma anche dei falsi documenti nell’affaire di segniDreyfus. «Simone l’ho inventato io. Ma come nipote del vero capitan Simonini. La storia è questa: alla fine del Settecento l’abate Barruel dà alle stampe un’opera per spiegare come la Rivoluzione francese fosse frutto di un complotto: dei Templari, degli Illuminati, dei massoni. Ed ecco che un certo capitan Simonini gli scrive: “Avete dimenticato gli ebrei”, e dispiega l’armamentario di tutto quello che sarebbe diventata la propaganda antisemita del XIX secolo. Questa lettera è stata ripubblicata varie volte tra l’altro dalla “Civiltà cattolica”‘.
Simonini odia non solo gli ebrei, ma pure i tedeschi, i francesi, gli italiani. L’antisemitismo è la matrice di tutti gli stereotipi razzisti?
Di Segni: «Il libro dimostra che certe tesi possono servire ogni volta che si vuole fare male a qualcuno. Ma c’è una particolarità che riguarda gli ebrei: da un lato si dice che sono portatori del comunismo, dall’altro, che sono i grandi capitalisti, i finanzieri. E c’è un’altra specificità: i tedeschi o i francesi saranno simpatici o antipatici, ma nelle camere a gas, sono finiti gli ebrei».
Nel libro viene costruita una teoria generale del complotto. Si spiega che la tesi sula cospirazione deve essere semplice, deve avere un solo bersaglio e che serve a chi non riesce a spiegare a se stesso perché nella vita non ha i avuto successo, perché gli altri sono ricchi, belli, felici.
Eco: «La gente ha bisogno del nemico. Lo faccio dire ai miei personaggi, agenti dei servizi. Chi è il nemico? Il diverso. Ma mentre gli altri diversi: i catari, gli albigesi, sono scomparsi massacrati, la tradizione ebraica, grazie alla forza della sua cultura, ha resistito un po’ dovunque. E quindi l’ebreo è diventato il diverso per eccellenza».
Ne “Il cimitero di Praga” Eco usa testi e tesi antisemiti veri, per smontarne il meccanismo. Lei rabbino, mentre lo leggeva, cosa ne pensava?
Di Segni: «Penso che il messaggio di Eco sia ambiguo. Provo a raccontare l’inizio della storia come l’ho letta io: il Nostro comincia la sua carriera di spia e di falsificatore con l’impresa dei Mille. Viene spedito in Sicilia dai servizi segreti piemontesi che hanno timore dei garibaldini. E da Palermo manda a Torino messaggi in cui spiega che il successo delle camicie rosse, contro uno Stato come quello borbonico, organizzato e con una potente marina militare, fosse dovuto alle logge massoniche inglesi che hanno corrotto i generali. Il lettore cosa ne capisce? È vero o non è vero ciò che si racconta? E questo è un esempio, che vale per tutti i complotti raccontati: quelli dei massoni e quelli dei gesuiti. E anche per gli ebrei. Alla fine il lettore si chiede: ma questi ebrei, vogliono o non vogliono scardinare la società e governare il mondo? Il problema è che non si tratta di un libro scientifico che analizza e spiega i fenomeni. “Il Cimitero di Praga” è un romanzo. E in più ha una trama avvincente, che finisce per convincere».
Eco: «Ho scritto un romanzo, appunto. E un romanzo, a differenza di un saggio, non porta a delle conclusioni, mette in scena le contraddizioni. Così come ho messo in scena i due aspetti del Risorgimento, gli antigaribaldini e gli entusiasti, l’ho fatto anche con la nascita e lo sviluppo dell’antisemitismo. Da Barruel in avanti escono a centinaia libri e riviste pieni di stereotipi antisemiti. A me interessava raccontare come attraverso l’accumulazione di questi stereotipi fossero costruiti i “Protocolli”. Il rabbino mi chiede: cosa era vero. lo rispondo: il lettore dovrebbe capire che niente era vero. Che era tutto dossieraggio, una costruzione di servizi. Sono cosciente delle ambiguità che possono nascere. Ma la mia intenzione era quella di dare un pugno nello stomaco del lettore».
Se in un sito antisemita troviamo scritto che tutte le invenzioni della modernità: da Marx alla psicoanalisi a Facebook sono opera degli ebrei, ci indigniamo. Ma quante volte sono gli ebrei a dire: abbiamo dato al mondo Marx, Freud, Kafka: perfino un arcivescovo di Parigi.
Di Segni: «Aggiungo il rito d’Ottobre: arrivano i Nobel, e si comincia a contare quanti sono “dei nostri”. E ce ne sono sempre. È una specie di autocompiacimento, un meccanismo perverso che finisce per ritorcersi contro. Però. Nel libro di Eco i soggetti principali che vengono accusati di aver ordito complotti sono tre: gli ebrei, i massoni e i gesuiti. I gesuiti sono le prime vittime di Simonini: ma dalla narrazione risulta che comunque era gente poco raccomandabile. La stessa cosa, in misura minore, vale per i massoni: nell’Ottocento partecipavano a giochi di potere. E se ci sono elementi di verità quando si parla dei gesuiti e dei massoni si pone il problema, e per gli ebrei, come la mettiamo? Solo loro sono vittime innocenti? Ecco dove il gioco messo in scena da Eco si fa pericoloso».
Eco: «Il romanzo è stato scritto per raccontare come sono stati costruiti i “Protocolli”. E là dove secondo il rabbino diventa pericoloso, secondo me dovrebbe essere narrativamente chiaro come ogni stereotipo usato prima contro i gesuiti, poi contro Napoleone III, poi contro i massoni, può essere anche utilizzato contro gli ebrei. È sempre la stessa montatura, cambia solo l’oggetto».
Di Segni: «Vede, Eco, il problema è che il suo protagonista, per quanto becero e mostruoso, risulta alla fine simpatico, ci si può identificare con Simone Simonini».
Eco: «C’erano anche ragazze che scrivevano lettere d’amore a Maso, il parricida. La copertina della rivista antisemita francese diretta da Edouard Drumont Non rispondo delle perversioni altrui».
Infatti, alla fine del libro, l’autore rivela che tutto era falso.
Eco: «Prima di questa conversazione chi ci sta intervistando mi ha detto che il mio libro andrebbe studiato nelle scuole per far capire ai ragazzi come si costruisce ad arte la teoria del complotto e come la si applica agli ebrei o a qualunque gruppo umano. Ora il rabbino mi dice che invece non è così. E allora, domando: il mio libro ha una funzione rivelatrice o no?».
Di Segni: «Proviamo a fare un esercizio. Chiediamo a un lettore di guardare su Wikipedia la voce “P2 Piano di rinascita democratica”. La redazione di Wikipedia ne prende le distanze dicendo che la voce non è “neutrale”. Ma poi, nel cuore di chi legge, rimane la domanda: c’è il complotto o non c’è il complotto? E dove è il falso: nelle carte, o nella lettura dei documenti? O non c’è falso? Lo stesso meccanismo può valere per “II Cimitero di Praga”».
Eco: «Ma se lei, rabbino, va a vedere un sito negazionista troverà argomenti estremamente persuasivi. Il mio romanzo racconta quello che chiunque può trovare in un sito negazionista, ma ne mette a nudo la natura di costruzione fraudolenta. Credo di aver dato al lettore tutte le chiavi per capire».
Altro tema del libro è la verosimiglianza del falso. Eco spiega che le teorie del complotto sembrano credibili perché sono sempre costruite con materiali già noti e che quindi hanno una parvenza di verità. È cosi anche oggi?
Eco: «Ho scritto un romanzo che inizia nel 1830 e finisce nel 1897. Ho lavorato solo sui testi d’epoca. Quindi non ho fatto affermazioni sull’oggi. Sta al lettore decidere. Ho iniziato a lavorarci cinque anni fa e non prevedevo che sarebbe finito proprio l’anno in cui ci sono le discussioni sul Risorgimento. Ora sembra che strizzi l’occhio alle polemiche attuali, ma proprio non ci pensavo. C’è una forma trascendentale del complotto che vale sempre. Nel mio romanzo sia il protagonista sia gli altri vendono sistematicamente ai servizi segreti materiali dove c’è scritto quello che già si sapeva. E anche oggi i famosi dossier sono solo delle raccolte di ritagli stampa».
La teoria del complotto si costruisce quindi cosi: si parte da quello che sappiamo oggi, dando una certa interpretazione del passato?
Eco: «E con allusioni. Recentemente un giornale di destra ha scritto che sono stato visto in un ristorante cinese mentre mangiavo con uno sconosciuto usando le bacchette. Ora non c’è niente di sospetto nell’usare le bacchette in un ristorante cinese, e lo sconosciuto era sconosciuto per chi scriveva il pezzo, non per me o per sua moglie. E allora perché l’hanno scritto? Per farlo leggere da gente che non ha mai visto un ristorante cinese se non nei film sul dottor Fu Manchu, che pensa che la Cina sia Mao, e che l’idea di uno sconosciuto fa entrare in paranoia. La costruzione del complotto nasce usando materiali veri, e conosciuti, ma montandoli in modo da suscitare il sospetto. Oggi succede la stessa cosa: per esempio con l’affaire Mitrokhin».
Infine. Cosa rimane dell’antisemitismo?
Eco: «E sempre risorgente. È un tarlo mentale, come la pedofilia. E si fa confusione tra ebrei e Israele. Così Berlusconi racconta una barzelletta antisemita e poi si giustifica: ma io sono amico di Israele».
Di Segni:
«Succede quando si prende sul serio il mito, quello sì antisemita, della potenza degli ebrei. E allora pur di ingraziarseli, si dice di essere appunto, amico di Israele. Le due entità sono invece solo in parte sovrapponibili».

Wlodek Goldkorn. L’Espresso, 4 novembre 2010