Davar Acher – Non possiamo tacere

La profonda incrinatura avvenuta nelle ultime settimane nel dialogo col mondo cattolico deve indurci a riflettere con molta cura. Le occasioni e i temi del dissenso sono state due, molto diversi: da un lato lo svolgimento molto spesso marcatamente antisionista del sinodo dei vescovi del Medio Oriente, e dunque il diritto all’esistenza di uno stato ebraico; dall’altro la trasmissione di uno sceneggiato televisivo su Pio XII, con la ripresa martellante della campagna per la sua beatificazione e dunque il nostro diritto a una memoria critica della Shoah.
E però il risultato è stato lo stesso: una forte amplificazione di stampa del punto di vista della Chiesa, una risposta ebraica abbastanza fievole, limitata a singoli interventi non coordinati di rabbini, di intellettuali, di giornalisti, di qualche presidente di Comunità particolarmente sensibile; l’ebraismo italiano in quanto tale, cioè l’UCEI, in queste occasioni non ha saputo o voluto parlare. Le reazioni dell’opinione pubblica e di quasi tutti i settori politici di fronte alle nostre ragioni sono state distratte o comunque poco sensibili, spesso addirittura meravigliate per la nostra reazione agli atteggiamenti della Chiesa.
Come se, nel primo caso, noi non avessimo diritto di parlare di Israele se non per partecipare alla sua condanna già stabilita che si ritiene obbligatoria. (Le violentissime e scomposte reazioni che si sono avute alla partecipazione di Saviano a una manifestazione per Israele dicono la stessa cosa: chi parla per Israele è un nemico del popolo e va emarginato e boicottato.) Come se, nel secondo caso, noi non avessimo diritto di proporre la nostra testimonianza di vittime nella discussione sulla storia della Shoah, ma dovessimo adeguarci alla parte scritta per noi dagli altri, per scopi che non ci riguardano. Se no, se ricordiamo la nostra memoria storica, se pretendiamo di esprimere il nostro giudizio su personaggi pubblici e istituzioni storiche, siamo “ingrati”, “ostinati” e magari anche “perfidi”, per rispolverare una vecchia parola che a sua volta ha una storia dolorosa.
Se dunque in un autorevolissimo consesso della Chiesa si dice che la fondazione di Israele è un'”ingiustizia” da correggere e se sostiene che la “resistenza” palestinese è da appoggiare, se i più autorevoli esponenti del sinodo affermano che non c’è più terra promessa e popolo eletto, dunque che il cuore della Torah (o dell’Antico Testamento, come dicono) è abrogato, tornando a posizioni preconciliari, la cosa piace ai filopalestinesi e interessa poco gli altri. Gli ebrei devono tacere, se proprio non vogliono fare il loro dovere di condannare “l’oppressione coloniale”. Se poi i giornali vaticani dicono che la maggior parte degli ebrei si sono salvati grazie alla Chiesa e dunque al Papa, citando numeri inverosimili e circostanze inesistenti, se lodano un racconto in cui la Resistenza non c’è e i fascisti neanche, scompaginando dunque le basi stesse della nostra “repubblica democratica nata dalla resistenza”, non se ne accorgono né le organizzazioni partigiane, né i partiti e gli intellettuali di sinistra, distratti da temi no global e terzomondisti. E l’ebraismo che protesta suscita “insofferenza” per la sua “ostinazione”, come ha scritto Vittorio Messori in un articolo sul “Corriere” che è difficile non definire minaccioso. Noi semmai dovremmo pensare a un rabbino di Roma il cui allarme non fu ascoltato e poi si convertì, come se l’imprevidenza dei dirigenti comunitari e non l’azione di fascisti e nazisti, nel gelido silenzio della Chiesa, fosse stata la causa della strage.
Vale la pena di tentare un paragone per chiarire questa dinamica, che mi è stato autorevolmente suggerito. Quando un mese fa un professore di provincia ha messo in rete una sua lezione sulla Shoah in cui sosteneva tesi negazioniste o revisioniste, le deplorazioni non sono mancate. Quasi tutti i politici – non la Chiesa – hanno accettato almeno a parole (i fatti li dobbiamo ancora vedere) l’idea di una legge contro il negazionismo. Ma quando il sinodo dei vescovi del Medio Oriente parla contro Israele o le voci cattoliche sostengono una ricostruzione storica unilaterale e inesatta del suo atteggiamento verso le persecuzioni, ci viene chiesto invece di non disturbare il manovratore. La ragione è semplice: la Chiesa per definizione dev’essere buona e non può sbagliare, non può stare dalla parte dei persecutori (anche se Giovanni Paolo II di qualcosa ha pur chiesto scusa…) Gli ebrei invece, almeno da vivi, sono di per sé “ostinati”, anche se forse non deicidi certo mancanti di fede; quando agiscono per difendersi fanno “peccato contro Dio”; chi li ha uccisi in quantità industriali certamente è malvagio, ma questo marchio riguarda solo pochi carnefici nazisti, non i complici fascisti, non l’indifferenza di chi non volle vedere o intervenire, non il popolo tedesco, non la Chiesa che vide, e ufficialmente tacque.
E comunque noi ebrei dobbiamo solo esprimere umilmente gratitudine, non rivendicare diritti, non avere un punto di vista nostro, non cercare di distinguere noi chi ci ha aiutato e chi non l’ha fatto, a chi esprimere gratitudine e a chi dissenso. La cosa che ci viene richiesta è di tacere e magari di assomigliare il più possibile al ricordo folkloristico dei nostri antenati, quei dolci individui disarmati degli Stehtl askenaziti che pregavano, raccontavano meravigliose storie allegoriche, si lasciavano massacrare senza opporre resistenza, le cui favole sono applaudite a teatro..
Eppure noi dobbiamo continuare a parlare; non solo per solidarietà a Israele o per onorare la memoria di chi fu ucciso nella Shoah, non solo per il dovere di quella testimonianza del vero che è così centrale nell’ebraismo. Ma anche per responsabilità verso il paese, in cui viviamo e che è anche nostro, dove la coscienza storica sembra essersi spenta, il senso della nazione dimenticato e l’attaccamento alla democrazia trasformato in sterile polemica di parte. Testimoniando che Israele non è ingiustizia ma realizzazione democratica di un sogno nazionale, abbiamo anche il ruolo di richiamare il valore dell’unità nazionale e della democrazia in Italia; ricordando che il fascismo e la monarchia, non solo il nazismo furono colpevoli di gravi crimini contro i cittadini italiani (gli ebrei e non solo loro), rivendicando il ruolo della Resistenza al nazismo, esponendo le ambiguità della Chiesa in quel periodo, noi ci assumiamo il compito di ricordare le radici laiche e antifasciste della nostra democrazia.
Mi è capitato talvolta di dover lamentare la sovraesposizione mediatica del piccolo ebraismo italiano, chiamato a far da testimone sull’affidabilità democratica di questo o quel politico o a giudicare sull’accettabilità di politiche della memoria, fino all’onomastica stradale. Il duplice attacco della Chiesa e dei suoi difensori alla Sermonti mi ha fatto cambiare in parte idea. E’ vero, noi abbiamo anche il compito di coscienza democratica di questo paese. Lo siamo in quanto minoranza che ha subito l’oppressione e la persecuzione, lo siamo in quanto abbiamo il coraggio di opporre le nostre ragioni al potere più forte che c’è oggi in Italia, quello clericale. Questo ruolo di coscienza è pesante, ma essenziale. Chi ci minaccia, come fa Messori, probabilmente non vuole fare solo a meno del nostro “ostinato” controllo, ma in generale di controlli e contraddittori, per affermare la volontà “provvidenziale” di istituzioni che non vogliono ammettere di aver mai potuto sbagliare.

Ugo Volli