“Mio figlio mi ha aggiunto su Facebook”
Mio figlio mi ha aggiunto di Facebook è l’ultimo libro di Alessandro Schwed. Per cortese concessione di L’Ancora del Mediterraneo, editore del nuovo romanzo dello scrittore italiano pubblichiamo un breve estratto dal libro. A Schwed e alla sua opera (sono apparsi precedentemente Lo zio coso, Ponte alle Grazie edizioni e La scomparsa di Israele, Mondadori), Pagine Ebraiche di novembre dedica un’intervista.
Il mondo di Facebook e la socialità giovanile sono i protagonisti in questi giorni anche del film The social network cui il giornale dell’ebraismo italiano dedica diversi servizi.
La vita virtuale degli ultracorpi
Si potrebbe dire che internet e la playstation coincidono con la giornata del Lungo, ma la scuola sbarra la giornata come il cancello di un bagno penale dove la giovinezza espia se stessa. Ed è solo dopo che è trascorsa la mattinata e i verbi semideponenti, i protoni e la Costituzione sono alle spalle come un paesaggio nebbioso, che inizia la giornata. Scoccate le tredici e trenta, da quel momento è pomeriggio, è sera, è notte, è un’unica polpetta. La playstation e internet macinano la vacua analisi strutturalista dei Promessi sposi, studio terroristico dell’opera, istituito al posto del testo come penitenza, di modo che il romanzo non debba iniziare con don Abbondio che incontra i Bravi in quel viottolo, ma implodendo nella conta di ossimori e metafore, plagiando le tenere menti con la moderneria che la penna del Manzoni simula una macchina da presa che zuma sul lago e atterra su don Abbondio mentre passeggia con il breviario. Ciò sino a inibire ogni eventuale desiderio di lettura. Poveri ragazzi, al posto loro avrei ribaltato la cattedra.
Ma tabula rasa: c’è la playstation, internet e la variabile perversa della playstation online. Per quanto riguarda la consolle, a casa nostra il momento è critico: da dieci giorni il Lungo sta tentando di uccidere Zeus e non ci riesce. Come vi ho detto, il gioco si chiama God of War e comporta l’impegno continuato di scalare il monte Olimpo, arrampicarsi sulle immani clavicole dei Titani – anche loro poveretti tentano di scalare l’Olimpo – prendere Zeus per la barba, tirarla e riempirlo di pugni prima che lo faccia lui, e tu, giocatore, perda il duello finale e muoia, precipitando nella frustrazione di essere destinato a perdere. Non so se fra voi qualcuno ricordi i primi videogiochi di duelli di spada, calci e/o pugni, ora chiamati nel neogergo playstationale i “picchiaduro”. Quando la sfida veniva persa, una voce stentorea diceva: «You failed», “hai fallito”, istruendo per tempo i ragazzi sull’allegria della società adulta. Ecco, il finale di God of War è fatto per non vincere: Zeus ti massacra e non si fa che fallire. Ucciderlo è uno stress, e la vita familiare ne risente. Ogni giorno mia moglie e io ci informiamo su come vada con Zeus, ma è una domanda retorica, sappiamo benissimo come sta andando dal crescendo delle parolacce di nostro figlio: God of War sta trasformando la tempesta adolescenziale in un tifone permanente, e sono disperato. Personalmente, non mi vergogno a dirlo, rivolgo a Dio delle preghiere magari improprie, ma necessarie. Spero che l’Onnipotente collabori con il ragazzo per fargli mettere al più presto al tappeto quell’esibizionista di Zeus, che gira in un perizoma che sembra la reclame del Viagra. Al mattino, dopo che mio figlio ne ha buscate da Zeus tutta la notte, pronuncio questa orazione: «Signore, dona la dolcezza a questa nuova giornata: fa uccidere Giove a mio figlio». La preghiera prosegue così: «Creatore dell’Universo, scusa, ma ti domando: “Tu hai fatto rompere tutti quegli idoli di terracotta ad Abramo, non capisco perché adesso fai durare settimane e settimane quel vecchio dopato che sembra l’icona della lap dance”. La nostra famiglia ti prega: fai schiantare il re degli dèi, così nostro figlio si rimette a studiare almeno la chitarra elettrica. Amen».
Nell’attesa che la preghiera sia accolta, la vita è dura. Oggi ho incontrato mio figlio in corridoio, aveva la fronte aggrondata. E così, Leo è fermo davanti a una parete, non mi vede arrivare e sta colpendo il muro con un pugno.
«Come va?» gli chiedo «hai una faccia».
Lui si mette rapidamente la mano in tasca, come se non avesse mai colpito il muro. «Ciao pa’» mi fa.
«Si può sapere che hai?» gli domando.
E lui: «Non riesco a uccidere Zeus, fanculo. Odio quel vecchio atletico». Poi aggiunge, sommesso: «Fra l’altro ti devo dire una cosa…».
«Dimmi» faccio.
«Pa’, mi sento un po’ strano…».
«Strano in che senso?».
«A un tratto mi sembra che uccidere Zeus sia blasfemo. Tu che dici?».
«Secondo me, hai ragione, è una faccenda sporca: capisci, scalare l’Olimpo è un po’ come pretendere di scalare il cielo e prendere il posto di Dio».
E lui: «Bel modo di aiutarmi, pa’!».
E io: «Ma come, se me lo hai chiesto tu il parere!».
«Sì, te l’ho chiesto io, ma mica ho chiamato un prete».
E io: «Non ti fai mai aiutare».
«Allora, che faccio pa’? Continuo e lo uccido, oppure smetto?».
E io: «Uccidi quel cartone animato, figliolo. E che Dio ci perdoni».
Alessandro Schwed