Amos Oz e il vizio dell’Europa

Ride Amos Oz. È abituato a guardare i salotti dal mondo e non il mondo dai salotti. Da Israele guarda l’amata Europa delle sue origini remote, dei suoi sogni infantili, la “landa incantata di campanili e piazze lastricate di antiche pietre, tranvai e ponti e chiese turrite, villaggi sperduti, sorgenti benefiche, boschi, nevi e pascoli” di cui parla in Una storia di amore e di tenebra. “L’Europa, questo grande salotto, è come un’arcigna istitutrice vittoriana che punta il dito – dice – vuoi contro gli uni, vuoi contro gli altri. È il suo inguaribile vizio”. Ride perché è capace di guardare con umorismo – dote che lo contraddistingue come scrittore e come uomo – all’ingenuità di quest’istitutrice.
Purtuttavia gli piace stare qui. Nei suoi romanzi definisce il suo rapporto col vecchio continente “un amore non corrisposto”. In particolare, negli anni della maturità, ha avuto modo di conoscere il belpaese, nel quale ha anche scelto di trascorrere alcune vacanze. Da poco ripartito da Napoli, lo incontriamo in Piemonte, intento a visitarne alcuni tra i luoghi più significativi. La fondazione torinese che gli ha assegnato il premio Salone del Libro 2010 ha organizzato una lunga serie di incontri con gli studenti di tutta la regione.
Si trova bene, signor Oz, in Italia?
Eccome, certo che mi trovo bene. Mi sento a casa. Gli italiani sono gente di cuore, dal temperamento caldo. Sono passionali, ma anche argomentativi. Sono edonisti e materialisti. E poi sono dei terribili guidatori, davvero spericolati. Come potrebbe un israeliano non sentirsi a casa?
Davvero Lei nota tante somiglianze tra il suo paese e il nostro?
Come no! Israele sembra un film di Fellini. È una schiamazzante collezione di argomentazioni, in cui vige un disordine mentale consolidato. In Israele ci sono circa sette milioni e mezzo di cittadini, sette milioni e mezzo di primi ministri, e almeno altrettanti profeti. Sempre, tutti, calorosamente in disaccordo. Lei non potrebbe fare la coda per l’autobus senza venir coinvolto in un seminario di strada, in cui tutti parlano e parlano, pensando di saperne più degli altri, e nessuno che ascolti. Nel frattempo si cerca di saltare la fila. È davvero uno spettacolo divertente. C’è una vena di anarchia, in tutto ciò, e a me piace. È qualcosa che fa parte del retaggio culturale dell’ebraismo.
Leggendo i suoi libri, non si direbbe che Lei è uno che non ascolta gli altri.
Vero, ma mi ritengo un’eccezione. In fondo si tratta della mia professione, è così che mi guadagno la pagnotta.
Ravvisa altri parallelismi fra i nostri due paesi?
Credo che condividiamo il problema di una classe dirigente fondamentalmente rozza, miope, sovente inadeguata a gestire le sfide del paese. Ma, quel che è peggio, corrotta. C’è da stupirsi che le nostre due economie prosperino, è un miracolo.
Guardi che da noi non si naviga nell’oro, anzi.
No, ma siete ancora un paese ricco.
Uno dei settori più colpiti dalla crisi economica, in Italia, è quello della cultura e dell’istruzione. La nostra università pubblica è in ginocchio. Cosa ne pensa?
Proprio a questo mi riferisco quando parlo di rozzezza e miopia della classe dirigente. Non conosco nel dettaglio la situazione italiana, ma posso dire che anche in Israele il governo ha ridotto sensibilmente il budget destinato alla scuola, alla scienza e alla ricerca. Il risultato è che molti dei nostri giovani talenti scelgono di emigrare all’estero. Si cerca di far passare l’idea che la conoscenza è un tema di sinistra, mentre invece è il maggiore dei beni comuni. La ricchezza di un paese risiede innanzitutto, per non dire esclusivamente, nelle menti dei suoi cittadini.
Come ci sta confermando, Lei è notoriamente molto critico nei confronti delle scelte politiche di Israele. Si definirebbe un sionista?
Senza alcun indugio.
Ci spiega meglio?
Sionismo è un termine ombrello, significa molte cose diverse. Ci sono sionisti di ogni tipo: sciovinisti, religiosi, marxisti, nazionalisti… il sionismo in cui mi riconosco io è molto semplice, lo posso riassumere dalla A alla Z in una sola frase: credo che gli ebrei, come ogni altro popolo, abbiano diritto all’autodeterminazione.
Ebreo secolare, così si definisce Amos Oz. Cosa rimane dell’ebraismo se gli sottraiamo la religione?
La religione, a parer mio, è solo un aspetto dell’ebraismo, non l’ebraismo tout court. Esso è piuttosto una civiltà, un complesso e intrecciato patrimonio di cultura, lingua, letteratura, gastronomia e filosofia. Non c’è alcuna contraddizione nell’essere un ebreo non religioso.
Dopo aver passato gran parte della sua vita in un kibbutz, cosa le sembra che sia rimasto, oggi, in Israele, dello spirito originario dei kibbutzim?
Indubbiamente c’è stato un grande cambiamento. I padri e le madri fondatori erano degli idealisti, diciamo pure che erano molto ideologizzati. Fecero dei grandi sacrifici, lavorarono duramente e diedero vita ad un movimento fantastico, ma molto dogmatico, restio alla mentalità del compromesso, a me tanto cara. La seconda e la terza generazione sono divenute più flessibili e tolleranti, perciò hanno reso l’ambiente dei kibbutzim più vivibile e ospitale, più umano.
Molti dissero che i kibbutzim furono l’unico esperimento riuscito di socialismo. È ancora vero?
Guardi: un giorno Henry Kissinger chiese a Mao Tse Tung cosa ne pensasse della rivoluzione francese. Il Grande Timoniere, com’era chiamato il presidente della Cina, gli rispose che era passato troppo poco tempo per giudicare.
Anch’io non mi sento di dare un giudizio definitivo. Mi associo al filosofo Martin Buber che ci andò cauto: non si può dire che i kibbutzim siano un esperimento fallito. Se ci incontreremo fra qualche generazione saprò darle una risposta più precisa.
Mi perdoni la curiosità: perché ha scelto Oz, che significa coraggio, come nome d’arte?
Non è un nome d’arte, è quello scritto sul mio passaporto. Quando avevo quattordici anni mi sono ribellato a mio padre, ho cercato di non essere tutto ciò che era lui. Viveva in una città e io mi sono trasferito in un kibbutz, era un intellettuale e io mi sono messo a guidare trattori, era di destra e io sono diventato socialista. Era anche un uomo piuttosto basso: io ho cercato di diventare alto, ma con scarsi risultati. Cambiare cognome fu parte di quella mia ribellione giovanile.
Proprio lei, il fautore del compromesso? Allora non sempre funziona quella strategia…
Sempre, eccezion fatta per due casi. Il primo è l’aggressione: Hitler, Stalin, Mussolini o chiunque aggredisce con la forza va fermato con la forza. Il secondo sono le idee. Idee diverse non devono per forza giungere ad un compromesso, è sufficiente che imparino a coesistere.

Manuel Disegni