Davar Acher – I ripetitori e noi
Per chi si trova come me a seguire giorno per giorno la stampa e le polemiche politiche intorno all’ebraismo e a Israele, la sensazione dominante, a tratti asfissiante, è la ripetizione: il ritorno ossessivo degli stessi temi, degli stessi argomenti, delle stesse polemiche. Un circolo non nicciano, un ritorno dell’identico che non induce saggezza, ma noia e sconforto.
Vediamo per esempio le ultime note di cronaca. Prima c’è stato quel professore di provincia che non voglio nominare, a ritirar fuori le storie (scipite se non fossero oltraggiose, semplicemente stupide se non riguardassero un lutto così grande) sull'”industria” della Shoà, sul numero dei morti, sull’uso politico di Auschwitz per favorire Israele. Quante volte abbiamo sentito queste cose? Quante volte abbiamo ribattuto, argomentato, spiegato? Abbiamo fatto un appello riguardo a questo stesso personaggio due anni fa, ottenendo – sembrava – la cancellazione del suo master. Invano, a quanto pare, perché l’ha rifatto e certamente lo rifarà, lui come quegli altri Faurisson, Irving & company, sempre pronti a rifriggerci la stessa canzone. La ripetizione negazionista non argomenta sulle nostre risposte, si limita a riproporre il suo dubbio cinico e vigliacco, ignorando ogni altra voce.
Poi è stata la volta del sinodo dei vescovi, che ha ripreso invece il ritornello dell'”ingiustizia” di Israele, riparazione della Shoà a danno dei poveri innocenti indigeni palestinesi. Quante volte abbiamo dovuto ripetere che gli ebrei non sono mai stati assenti da Eretz Israel negli ultimi tremila anni, né Eretz Israel dai loro cuori? Quante volte abbiamo spiegato che l’impresa sionista precede di mezzo secolo la “soluzione finale”, che la dichiarazione Balfour è del ’16, ripresa poi nei trattati internazionali che chiusero la prima guerra mondiale; quante volte abbiamo ricordato i pogrom palestinesi del ’29 e ’36, la collaborazione del Muftì con Hitler, quante volte abbiamo detto che nel ’47 Ben Gurion accettò la divisione dell’Onu e invece gli arabi la rifiutarono, che la guerra viene da loro? Invano anche qui. I vescovi ci ricantano la vecchia favola dei palestinesi innocenti e dei cattivi imperialisti israeliani con le loro colonie. In questo caso con un pizzico di teologia popolare: dato che un ebreo di nome Gesù è stato ammazzato dai romani, noi abbiamo perso il diritto a rivendicare la nostra terra. Chiaro, no? Non si discute. Israele non ha diritto di parola, se replica e quando argomentiamo le sue ragioni, è come parlare al muro.
Il capitolo successivo è stato Pio XII e la serie televisiva che lo esalta. Abbiamo avuto cento volte un bel dire che non ce ne importa nulla della beatificazione cattolica, che i ritratti sugli altari delle chiese non ci interessano, e che però avremo bene il diritto di discutere su chi ci ha aiutato nel momento delle stragi e chi non l’ha fatto, di essere grati a chi ci ha salvato e non a chi la Chiesa vuol promuovere per ragioni sue. Abbiamo documentato – non ci voleva molto, in verità – quell’assordante silenzio di papa Pacelli prima durante e perfino dopo la Shoà, abbiamo chiesto invano di accedere agli archivi per verificare se davvero, come dicono, siano state emanate istruzioni segrete per la solidarietà nonostante l’evidente pubblico distacco; ci ribattono le solite stupidaggini, che dobbiamo pensare di più al rabbino Zolli buonanima, che Golda Meir ha addirittura mandato un telegramma educato in Vaticano in morte di Pio XII, che prima era arrivata perfino un’orchestra a cercare rapporti culturali, come se queste fossero medaglie al valore e non atti di cortesia, e che insomma, faremmo meglio a stare zitti, perché lo sceneggiato Rai era semplicemente ottimo dato che mostrava il grande aiuto che papa Pacelli ci diede, e se non ce n’eravamo accorti prima, peggio per noi, adesso siamo avvertiti e faremmo meglio a conformarci. Ripetizioni arroganti.
E quando il presidente dell’Ucei ha cercato di spostare il discorso sulla famigerata preghiera del Venerdì Santo, la cui nobile richiesta è la conversione degli ebrei, cioè in buona sostanza che gli ebrei finalmente si tolgano dai piedi come entità collettiva, un nuovo grande silenzio segue, un silenzio nobile, solenne, dilatato, in cui si compendia la sovrana sapienza di un regno molto più che millenario, che dei perfidi non cura: un silenzio ripetuto anche lui, “fin de non recevoir”, come si dice in diplomazia. Ma il papa invece subito dopo ci assicura che “il dialogo con gli ebrei è prezioso”, “nonostante vi siano stati nella storia momenti in cui il rapporto è stato teso”. Teso, ecco. “Certo, queste affermazioni non significano misconoscimento delle rotture affermate nel Nuovo Testamento nei confronti delle istituzioni dell’Antico Testamento. […] Tuttavia questa differenza profonda e radicale non implica affatto ostilità reciproca.” (Ansa 11.11) Queste sono, badate, le conclusioni del Papa del sinodo dei vescovi, tratte senza nominare Israele e alludendo in maniera criptica alla teoria della “fine del popolo eletto”, esposta alla stampa dal presidente della commissione del sinodo. E’ la stessa minestrina calda che avevamo sentito durante la sua visita alla sinagoga di Roma, con lo stesso rifiuto di anche solo di nominare Israele e la stessa bizzarra idea della necessità di superare l'”ostilità reciproca”, come se noi avessimo chiuso nei ghetti loro, noi bruciato i loro libri e ammazzato allegramente i loro fedeli… Gesti ripetuti nella totale noncuranza dell’altro.
Ripetizioni, ancora ripetizioni… ci sono consolazioni e moralità nella ripetizione, per esempio della preghiera o degli obblighi e degli affetti della famiglia, come scrisse Kierkegaard in uno dei suoi libri più curiosi. Ma nel dialogo, nella discussione politica, la ripetizione è mancanza di ascolto e di considerazione. Essere così circondati da ripetenti dovrebbe farci pensare. Perché noi abbiamo grande accesso alla sfera pubblica, parliamo molto. Ma poi non abbiamo risposte fuori dalle ripetizioni più ostinati che ci ributtano addosso stereotipi millenari. A che serve parlare a chi ci ripete sempre la stessa cosa?
Ugo Volli