Il teatro e i coloni
La petizione, firmata da numerosi artisti, registi di teatro e uomini di cultura israeliani, contro l’apertura di un teatro ad Ariel (località, com’è noto, all’interno dei Territori palestinesi), con l’esplicito invito agli artisti israeliani a non prendere parte alle attività programmate in tale sede, solleva diverse questioni.
Il problema della presenza ebraica nei Territori, com’è noto, rappresenta, dal 1967, uno dei principali nodi da risolvere sulla strada della soluzione del conflitto, e una delle principali richieste avanzata dalle controparti arabe, oltre che dalla Comunità internazionale, nei confronti di Israele. Nell’opinione pubblica israeliana la questione è sentita in modo diverso tra le varie componenti, e non c’è dubbio che, nella mancanza di una concreta prospettiva di pace, in consistenti fasce della popolazione si sia andata sedimentando una sorta di fatalistica accettazione dello status quo, considerato una condizione destinata a continuare indefinitamente nel tempo. Un atteggiamento fortemente contrastato dalle componenti più attive sul piano della ricerca della pace e del dialogo, per le quali la perpetuazione “sine die” sarebbe un grave errore, e ogni gesto in tale direzione (come il teatro ad Ariel) sarebbe pertanto da contrastare, nello stesso interesse dello Stato di Israele, per non ulteriormente pregiudicare le già deboli e remote prospettive di pace.
In realtà, la grande maggioranza dei cittadini israeliani è perfettamente consapevole che, sul tavolo dei negoziati di pace, la questione delle colonie rappresenterà certamente un prezzo da pagare, e nessuno si illude che sia possibile raggiungere un accordo senza un ragionevole compromesso su tale piano, che non potrà non imporre dolorose rinunce e consistenti sacrifici. Coloro, fra i coloni, che si oppongono in ogni caso all’idea di ogni concessione territoriale non sono che una sparuta minoranza, e anche questi, alla fine (forse con qualche eccezione, come in ogni Paese del mondo), accetterebbero, sia pure con estrema riluttanza e grande dolore, le decisioni democraticamente assunte dal Governo. Ci sarebbero, verosimilmente, atti di resistenza passiva e azioni dimostrative di strada, analoghe a quelle registrate in occasione degli sgomberi dal Sinai e poi da Gaza, dove alcuni abitanti si fecero incatenare alle loro case, per non abbandonarle, ma senza comunque commettere nessun gesto di violenza. Il triste lavoro di evacuazione fu portato a termine, nell’uno e nell’altro caso, senza il versamento di una sola stilla di sangue.
La verità è che, tra i cittadini d’Israele, la spaccatura non è sull’alternativa “colonie sì, colonie no”, ma, piuttosto, intorno alla domanda del “come e quando”. A chi bisogna restituire le colonie? A fronte di quali promesse? Con quali garanzie sul piano della sicurezza, della lotta al terrorismo, del raggiungimento di una vera pace? Molti ritengono che queste domande non debbano costituire un pretesto per perpetuare una situazione che danneggia Israele anche sul piano etico, oltre che politico, e vorrebbero quindi uno smantellamento immediato di tutte le colonie, senza nulla in cambio, come semplice rimozione di una situazione di illegalità. La maggioranza, però, pare non ritenere saggia e prudente una simile posizione, se non altro perché presenterebbe Israele sguarnito al tavolo negoziale: c’è qualcuno tanto ingenuo da ritenere che i palestinesi, riavuti tutti i loro territori, senza aver dovuto nulla concedere in corrispettivo (neanche una cartolina da Gilad Shalit), non porrebbero altre, pesanti condizioni, per firmare un accordo di pace?
Entrambe le posizioni, sia chiaro, sono perfettamente legittime, ma resta l’impressione che i sostenitori dell’imperativo della totale e immediata restituzione siano quelli, in fondo, che meno credono alla possibilità di una pace fatta con gli avversari, e non solo con sé stessi (cosa molto più facile), sul base di un ragionamento del tipo: “dato che la pace non si fa, cominciamo noi ad agire ‘pacificamente’”.
Non è il problema politico del futuro delle colonie, però, in questo caso, a essere posto in questione. Non si parla, infatti, di inaugurare nuovi insediamenti o di incrementare quelli esistenti, e nemmeno di decidere se Ariel debba o non debba sopravvivere in futuro, ma semplicemente di farvi operare, oggi che esiste, un teatro. Perché negare ai cittadini di Ariel questa innocua possibilità? Sono forse tutti dei pericolosi delinquenti? L’arte ha mai fatto male a qualcuno? Non sarebbe meglio invitare gli artisti ad andarci, ad Ariel, magari proprio per parlare di pace e di dialogo, o dello stesso, precario destino della cittadina e dei suoi abitanti?
Francesco Lucrezi, storico