Foa: “Rassegna mensile d’Israel, il patrimonio degli Indici”

Di seguito il testo integrale del discorso della professoressa Anna Foa alla presentazione degli Indici della Rassegna mensile d’Israel: “Questo incontro è volto a presentare gli indici complessivi, dal 1925 al 2004, ottant’anni dunque, della Rassegna Mensile di Israel. Come ha messo in luce il professor Saban nella sua presentazione e come hanno sottolineato le due curatrici degli indici, Micaela Vitale e Silvia Rebuzzi, nel loro saggio di presentazione del lavoro, si è trattato di un risultato importante e difficile da realizzare, che ha richiesto da parte loro un impegno pluriennale e una attenta rielaborazione dei criteri bibliografici e culturali di costruzione degli indici, che apre la strada non soltanto ad una ricostruzione del percorso della rivista, ma anche ad una ricostruzione complessiva dell’intera storia dell’ebraismo italiano di questo periodo. Vorrei segnalare, in particolare, il difficile lavoro compiuto dalle autrici per mettere a punto l’indice dei soggetti, in cui, come esse scrivono, “è stato necessario trovare delle nuove definizioni di argomenti che rispondessero alle strade di ricerca intraprese dagli studiosi nei diversi campi dell’indagine storica e scientifica”. La scelta, attuata dalla Giunta dell’Unione, di mettere online gli indici, contribuisce a renderli uno strumento accessibile non solo agli studiosi ma ad un pubblico più vasto, in fondo lo stesso pubblico cui è stata rivolta la Rassegna nel corso dei suoi ottant’anni di storia.
E’ nel 1925 che Dante Lattes e Alfonso Pacifici – che già dieci anni prima, nel 1916, avevano dato vita al settimanale Israel – fondano La Rassegna Mensile di Israel. Pubblicato inizialmente solo in maniera saltuaria, diventerà un regolare mensile a partire dal 1930, quando direttore ne rimarrà il solo Dante Lattes.
Lattes e Pacifici sono due personaggi chiave dell’ebraismo italiano: toscani entrambi, l’uno allievo di Elia Benamozegh a Livorno, l’altro seguace di Samuel Margulies a Firenze, ambedue sionisti di quello speciale sionismo religioso che caratterizza l’esperienza italiana, essi concepiscono la loro attività giornalistica come una missione volta a riaccendere lo spirito dell’assimilato ebraismo italiano, a vivificarlo e renderlo pieno e integrale.
Se l’Israel, in quanto giornale diretto a tutto il mondo ebraico italiano, aveva un carattere di grande accessibilità, diverso era il progetto della Rassegna, rivolta ad un pubblico ebraico colto senza per questo essere una rivista accademica, “moderno e efficace strumento di diffusione culturale presso i colti ebrei ebraicamente incolti”. Essa aveva come obiettivo di accogliere tutte le voci che sapessero “illuminare il pensiero e la storia di Israele e … portare un contributo alla conoscenza delle sue vicende e delle sue espressioni culturali”. Una formula originale, a cui la rivista ha saputo mantenersi sostanzialmente fedele fino ad oggi, nel mutare delle circostanze storiche, nell’avvicendarsi dei suoi direttori e del pubblico stesso a cui si rivolgeva. Una formula, inoltre, che fa della Rassegna una rivista rivolta essenzialmente al mondo ebraico, e non all’esterno. Anche questa caratteristica resterà dominante nella rivista nelle sue fasi successive, attraverso il volgere degli anni e il mutare delle problematiche: la Rassegna vuole insegnare l’ebraismo agli ebrei, non trasmetterne la conoscenza al mondo esterno, se non marginalmente e in via del tutto secondaria.
Soppressa dal fascismo nell’ottobre 1938, come tutta la stampa ebraica italiana, essa riprese le pubblicazioni, sotto il patronato diretto dell’Unione delle Comunità Israelitiche, dopo la fine della guerra, nell’aprile 1948, quando Dante Lattes tornerà da Israele a dirigerla “nel nome dei martiri, dei pensatori e dei pionieri d’Israele e rendendo grazie al Signore per averci concesso di salutare l’alba del Risorgimento Ebraico”. Ne resterà direttore fino al 1965, l’anno della sua morte. Nel riprendere le pubblicazioni, Lattes dichiarava il suo intento: richiamare gli ebrei italiani, in particolare quelli colti, alla loro tradizione culturale specificamente ebraica: “gli ebrei colti, cioè quella stessa categoria di persone la cui raffinata intellettualità si disperde oggi completamente fuori dal campo ebraico, o che, sia pur rimanendo in quest’ambito, si esaurisce in beghe politiche che sono esiziali perché nulla o quasi nulla hanno a che fare con l’ebraismo quale può essere vissuto e praticato oggi nel mondo fuori di Erez Israel”.
Tuttora in vita, essa ha quindi una lunga storia di oltre ottant’anni, la più lunga nella stampa ebraica italiana, tale da consentirci di afferrare quella del mondo ebraico italiano sul lungo periodo, attraverso il fascismo, le leggi razziste, la guerra, la Shoah, la fondazione dello Stato d’Israele, e via via le vicende principali di questa seconda metà del Novecento. Sfogliarne gli indici vuol dire quindi cogliere nel tempo l’immagine di come il mondo ebraico italiano percepiva i suoi problemi, la sua identità, la sua collocazione nella grande storia del mondo, farne emergere le trasformazioni, i cambiamenti, le persistenze. Fare, in sostanza, la storia del mondo ebraico italiano nel Novecento. Il quadro che ne emerge ci permette di vedere la trasformazione dell’identità ebraica nel secondo dopoguerra, una trasformazione profonda che la Rassegna Mensile di Israel non manca di ispirare e che, al tempo stesso, riflette. “ Una sfida culturale”, per usare le parole di Amos Luzzatto, che investe gli ebrei italiani a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, trasformando il loro impegno comunitario, la loro modalità di appartenenza religiosa, la loro collocazione rispetto al mondo ebraico e ad Israele.
La stampa periodica ebraica in Italia nasce con l’emancipazione, sull’onda del raggiungimento della parità giuridica, come sottolineava Attilio Milano in un suo saggio del 1937, pubblicato nel 1938, alle soglie della chiusura della rivista. Una nascita tardiva rispetto al mondo ebraico dell’Europa occidentale, in particolare alla Germania dei primi decenni dell’Ottocento, un ritardo che Milano attribuisce al più forte legame con la sinagoga e la vita religiosa, tipico dell’Italia ebraica nell’età dei ghetti. La stampa, cioè, sarebbe dopo l’emancipazione divenuta un sostituto della sinagoga, che gli ebrei, stufi della chiusura del ghetto, “disprezzavano” e fin “rinnegavano”, ora che essa non svolgeva più la sua funzione storica di dar loro gli strumenti per resistere e durare nel tempo. “E’ appunto in mezzo al fremito della nuova vita ebraica emancipata o in via di rapida emancipazione, in mezzo agli atteggiamenti di pensiero, più diversi e spesso più incomposti, degli ebrei italiani circa l’essenza del loro Ebraismo, che si impose la necessità di una parola, che dall’ampia palestra di un periodico, illustrasse il pensiero e la vita di Israele, facendone sentire la persistente, sempre feconda attualità”, scriveva. Trasmettere in un mondo ebraico in trasformazione, la conoscenza dell’ebraismo, del suo pensiero e della sua “essenza”, è quindi l’obiettivo del fiorire della stampa ebraica intorno alla metà circa del secolo XIX, nel contesto del processo di emancipazione.
Sono gli anni in cui in Germania, dove come in Italia l’emancipazione ebraica accompagnava il processo di unificazione nazionale, si stava realizzando un processo di trasformazione identitaria radicale, che coinvolgeva in profondità il mondo ebraico, impegnato a rinnovare la propria immagine sia di fronte al mondo sia di fronte a se stesso. Non un’“assimilazione”, concetto che implica la perdita dell’identità e il rischio di essere risucchiati, sotto tutti i punti di vista, nel mondo esterno, perdendo le proprie caratteristiche identitarie, ma una trasformazione. Che nel caso tedesco non si possa parlare di perdita identitaria, bensì di una radicale trasformazione dell’identità, è cosa su cui la recente storiografia sostanzialmente concorda. Anche per l’Italia è a mio avviso fuorviante usare il termine “assimilazione” a definire l’integrazione degli ebrei italiani nella società esterna. Ma in Italia, dove la tradizione religiosa si colloca da sempre in funzione di mediazione con il mondo esterno, il processo, più che una ridefinizione identitaria, implica la volontà di mantenere saldi i fili di una tradizione che non comportava e non aveva comportato di per sé nessuna radicale chiusura al nuovo. La funzione della stampa periodica, volta a far “sentire la persistente attualità” dell’ebraismo, a farne conoscere la vita, non è quindi volta, come in Germania, a rifondare l’identità, ma a riconoscerla e trasmetterla, anche nella trasformazione. Una funzione assai meno radicale, potremmo dire. Perchè essa fosse radicale, mancavano gli strumenti che avevano reso tale quella tedesca. Il primo era il mutamento nella percezione della storia, e quindi del tempo, indotto in Germania dalla Wissenschaft des Judentums. Tra quanti, negli anni cruciali del XIX secolo, accolgono il criterio storico adottando un ottica storicistica di trasformazione, e quanti invece si oppongono alla storia, considerandola un elemento eversivo della religiosità tradizionale, l’immissione del tempo e della contestualizzazione storica nella Legge e nel pensiero ebraico, l’Italia sceglie piuttosto, in questi primi decenni a cavallo dell’emancipazione, la seconda strada, sottolineando l’aspetto morale dell’ebraismo, non il suo essere nella storia. Mentre la Germania brulica di riviste di ogni tipo, centri culturali, conferenze, dibattiti, che attraggono un vasto pubblico e che contribuiscono alla creazione di una vera e propria opinione pubblica colta, interessata alla sua storia e pronta ad identificarsi non con il testo o con il rito, ma con il suo passato, l’Italia mantiene nei confronti della storia e dello storicismo crescente in Europa e nella società italiana non ebraica una sorta di diffidenza, dove confluiscono tanto le ragioni dei rabbini che quelle dei filosofi. Le ragioni di questa resistenza al paradigma storico ci riportano alla mancanza in Italia di una riforma, data la vicinanza esistente tra storia e pensiero riformato, e all’entusiasmo con cui i rabbini riformati, a partire dallo stesso Abraham Geiger, adottano il paradigma storico. La funzione della stampa italiana, dunque, lungi dall’essere come in Germania volta a cogliere le radici del mutamento, a fornire un paradigma identitario nuovo agli ebrei, rinvenuto appunto nella dimensione storica, sarà piuttosto una funzione difensiva, di salvaguardia non tanto della tradizione in se stessa quanto di un suo misurato incontro con la trasformazione.
Attribuendo alla stampa ebraica italiana una funzione meno eversiva che a quella tedesca, non dobbiamo, però, dimenticare il carattere assai particolare dell’incontro del mondo ebraico italiano con il mondo esterno: un incontro tra idealità in qualche modo affini, un’assimilazione, per dirla con Francesca Sofia, “ad un sistema di valori piuttosto che ad un popolo, ad una nazione fisicamente costituita, ad una lingua”. Un incontro, in sostanza, con idealità che non entravano in contrasto il forte impegno etico del mondo ebraico ottocentesco, che non imponevano scelte tra visioni del mondo contrastanti. A differenza che altrove, non sono gli anni successivi all’emancipazione a porre agli ebrei italiani il problema della ridefinizione dell’ebraismo, ma anni molto più tardi, quelli a partire dall’inizio del secolo e in particolare a partire dal periodo che segue la prima guerra mondiale, quando il nazionalismo italiano si trasforma e si allinea a quello europeo.
Sono gli anni della diffusione, sia pur com’è noto assai minoritaria ed élitaria nel mondo ebraico, del movimento sionista in Italia. Ed è soprattutto intorno al diffondersi del movimento sionista, e non, come in Germania intorno alla riflessione sulla propria storia, che si realizza in Italia, dopo la prima fase ottocentesca, una forte crescita della stampa ebraica, il nascere di riviste, associazioni culturali, conferenze, dibattiti. Ma, se in Italia il sionismo si sostituisce alla storia come catalizzatore delle trasformazioni identitarie, questo vuol dire, almeno in quel primo contesto italiano degli anni a cavallo della prima guerra mondiale, che questa riflessione identitaria è innanzitutto proiettata non verso la ricostruzione di uno spessore nel passato (sono ebreo perché ho una storia di ebreo) bensì verso il futuro, verso il recupero di un ebraismo rinnovato ma anche vivificato nel suo spirito (sono ebreo perché voglio riportare gli ebrei in Eretz Israel, ebrei rinnovati e capaci di ricostruire lo Stato attraverso la ricostruzione di se stessi). E, ancora, vuol dire che questa riflessione nasce non dall’emancipazione, e nemmeno dal tentativo di mantenere salda l’identità nelle lusinghe dell’emancipazione, ma dalla critica più radicale ad essa, quella sionista dell’assimilazione. E’ questa critica che si salda alle precedenti suggestioni ottocentesche sul mantenimento dell’identità, creando un paradigma forte e destinato a rafforzarsi nel tempo, quello di una contrapposizione radicale tra mantenimento dell’identità e assimilazione. Ma questo paradigma non deriva né dalla reale situazione storica del mondo ebraico italiano dopo l’emancipazione, e nemmeno, direttamente, dalle ansie di assimilazione di una sua parte, ma dalla sovrapposizione a queste ansie della critica sionista. Una critica ancora più forte e radicale proprio perché è minoritaria e si esprime in un contesto di ampia e profonda integrazione degli ebrei nella società italiana.
Anche sotto l’aspetto della natura del sionismo italiano, appare così evidente quanto suggeriva anni fa Mario Toscano, cioè il forte valore periodizzante che la prima guerra mondiale assume nella storia del mondo ebraico italiano, la necessità che essa impone “di una ridefinizione della condizione esistenziale dell’ebraismo italiano”. E’ il 1916, quando comincia ad apparire l’Israel, è il dopoguerra avanzato, e l’inizio della dittatura fascista, quando appare la Rassegna, il frutto più maturo e colto di questa nuova identità degli ebrei italiani, un’identità che per il momento riguarda solo alcune élites e che resterà ancora a lungo, fino al secondo dopoguerra, decisamente minoritaria.
Ma la Rassegna è anche altro: non solo reazioni alla grande storia che si svolge intorno, ma un’opera indefessa di presentazione di testi, letteratura, documenti, memorie, un’illustrazione costante di un mondo ebraico che si considera vivo, autonomo, in grado di elaborare in piena indipendenza dall’esterno pensiero, letteratura, poesia, come la sua lunga storia, illustrata sulle pagine della rivista, ben dimostra. Di qui, lo spazio grande dedicato alla letteratura ebraica, tanto a quella medioevale che a quella più recente, e dopo il 1948 alla letteratura israeliana. Di qui, l’illustrazione dei percorsi biografici di personaggi noti e importanti come di volti strappati all’oscurità del passato attraverso una lettera, uno scritto, un’immagine. Un’immagine viva e vitale dell’ebraismo, rivolta agli ebrei, a sottolineare la loro storia, la loro cultura, il loro futuro ebraico. Tranne che in qualche momento particolarmente alto, però, la Rassegna si dedica non a creare un mondo nuovo ma ad illustrare il passato e il presente, per farne partecipe un mondo ebraico troppo distratto, troppo ignorante della sua storia come anche del suo presente. L’impressione è quella di una via mediana, senza quelle rotture iconoclaste, quella spinta alla trasformazione che fanno parte della storia di altre esperienze ebraiche del Novecento, da quella russa a quella tedesca. Nel bene e nel male, è la storia dell’ebraismo italiano e della sua trasformazione senza strappi, nella continuità e nella stabilità. Di questo mondo la Rassegna è specchio fedele e attento”.

Anna Foa, storica