Davar Acher – Torah e popolo
Nella parte di Torah letta ritualmente lo scorso Shabbat si trova l’episodio dell’attribuzione a Jaakov del nome di Israel, cioè in fondo la vera “invenzione del popolo ebraico” – per citare di nuovo il titolo di un libro che del nostro popolo è abbastanza nemico da negarne l’esistenza, invitando con una mossa molto diffusa fra gli antisionisti a pensarlo come “niente più che una religione” sul modello di cristianesimo e islam.
Subito dopo l’attribuzione del nome, nel testo della Torah si incomincia a parlare di case e di insediamenti; e vi anche è il primo rifiuto a pagare con l’assimilazione le buone relazioni col vicinato: un episodio assai sgradevole e sanguinoso, quello di Dinah, che fra le altre cose si può leggere però come il rifiuto di fare del clan di Israele “un solo popolo” con quello di Scechem. Nella stessa porzione inizia quel comportamento rissoso dei fratelli che porterà subito dopo al conflitto con Josef e alla sua grande avventura egiziana. La presenza del divino nel testo, dopo la lotta con l’angelo di Jaakov, diventa più rara e difficoltosa: bisognerà aspettare fino al roveto ardente per trovare una grande teofania. Se leggiamo questi brani già in termini di tribù, inizia fra loro un’estraneità che è “politica interna” e non religione: una storia di dissidi che esploderà spesso nel Sinai, continuerà con le lotte intertribali nel tempo dei giudici, la divisione dei due regni e poi ancora mille volte fino a oggi.
Anche per coloro che non prendono la Torah come un libro di storia, ma ne considerano soprattutto il messaggio simbolico, su questo punto esso è chiaro: proprio secondo la narrazione religiosa Israele si costituisce innanzitutto come difficile famiglia, poi come clan piuttosto rissoso e come popolo suddiviso al suo interno per ragioni non teologiche ma fin “troppo umane” (ambizione, gelosia, sesso, potere, invidia…). Il rapporto privilegiato col divino si sovrappone a questa materia sociale turbolenta e fa fatica a regolarla, a tenerla assieme, a emendarla, come ha dovuto sperimentare per tutta la sua vita Moshé. E’ insomma proprio la Torah, l’ebraismo come religione, che ci dice che in Israele la dimensione di popolo, cioè la politica – con tutte i suoi limiti e le sue brutture – la precede e ne condiziona la realizzazione. Se si riesce a uscire dal paradigma antipolitico (o antinazionale) del messianesimo cristiano, si vede che anche la nostra promessa messianica è stata sempre pensata con una parte politica, come una restaurazione del regno davidico.
A differenza di altre religioni, la narrazione sacra ebraica non è dunque solo Rivelazione o Legge o escatologia, ma è anche storia politica di un popolo, non importa quanto scritta in un linguaggio mitico. Chi ha cercato delle scorciatoie per universalizzare il messaggio che la nostra tradizione ci ha affidato, combattendo in nome dell’universale il carattere nazionale dell’ebraismo, da Saul di Tarso a Karl Marx, è sempre finito molto lontano da noi, e presto le sue parole sono state usate come arma dai nostri persecutori. “L’invenzione del popolo ebraico” è l’articolazione di una nazione, che si identifica con progenitori comuni, è minacciata dagli stessi nemici esterni, ha la stessa aspirazione alla stessa terra che è stata promessa a quegli antenati, e si divide al suo interno secondo logiche politiche sgradevoli ma inevitabili.
Ugo Volli