Qui Venezia – “Gli ebrei e l’unità d’Italia”
“Gli ebrei e l’unità d’Italia”, questo il titolo della trentacinquesima giornata di studio svoltasi ieri a Venezia, promossa dalla Comunità ebraica di Venezia nell’ambito delle manifestazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia. In apertura della giornata l’intervento introduttivo del presidente della comunità ebraica di Venezia, Amos Luzzatto, che ha espresso la sua soddisfazione per la prosecuzione di una tradizione così importante per la Comunità ebraica lagunare: “Siamo alla trentacinquesima ricorrenza della giornata di studio, una tradizione relativamente nuova che ha messo ormai radici e che rappresenta un elemento prezioso per la cultura ebraica veneziana. Il tema di quest’anno è decisamente adeguato ai tempi che corrono. Noi ebrei italiani proveniamo da esperienze e paesi diversi, con usanze e lingue diverse. Siamo giunti qui in Italia alla ricerca di orizzonti migliori portando con noi un bagaglio di esperienze spesso penose. Nel breve periodo del risorgimento italiano abbiamo saputo trovare una prospettiva per le nostre speranze. Il processo di formazione, non sempre semplice, dell’unità d’Italia è stato per noi un periodo nel quale si sono aperte porte e finestre alla partecipazione, alla collaborazione e alla presenza ebraica nella società italiana in termini moderni, più liberali, più tolleranti e aperti al dialogo. Gli ebrei sono entrati con entusiasmo nel processo di unificazione d’Italia e credo che in pochi paesi come in Italia gli ebrei abbiano trovato una spinta tale per impegnarsi nella vita pubblica del paese su vari livelli e con diversi incarichi. La questione dell’unità d’Italia rappresenta per noi la continuazione di quella lotta con la quale siamo arrivati alla parità dei diritti, di doveri e di cittadinanza in questo paese”.
Il moderatore Riccardo Calimani, storico e scrittore, ha dato poi il via ufficiale alla giornata, in una sala Montefiore gremita, introducendo in breve i relatori e il primo intervento dedicato all’immagine ebraica della nazione italiana a cura di Francesca Sofia, professoressa di storia delle istituzioni politiche all’Università di Bologna.
Nel suo intervento la professoressa Sofia ha posto l’attenzione su un’interpretazione del concetto di nazione come costruzione culturale basata su modelli oppositivi: la stirpe, la santità e l’onore. Partendo da questi tre concetti chiave difficilmente si sarebbe potuto comprendere il processo di integrazione ebraica, presentato oggi come un modello riscontrabile a livello Europeo. Sembra che i materiali letterari e ideologici prodotti all’interno del movimento risorgimentale attingano esclusivamente alla religione cattolica, quando in realtà si rifanno a temi di carattere biblico riconducibili all’antico testamento e quindi condivisi con la religione ebraica. Dal concetto di esodo quale nazione per antonomasia al Mosè come guida per un popolo in marcia verso un ipotetico progresso, mediatore tra Dio e il suo popolo. Tale parallelismo rispecchia inoltre lo stato della maggior parte dei patrioti italiani costretti loro malgrado all’esilio.
Degli ebrei italiani e il 1848 ha parlato poi Tullia Catalan, ricercatrice di storia contemporanea all’università di Trieste, mettendo a confronto la generazione dei giovani del ‘48 e la generazione dei padri. La svolta del ’48 si esemplifica nella possibilità di dare finalmente un contributo ed essere attivi condividendo allo stesso tempo aspettative comuni. Accanto ai 220 volontari aderenti al movimento in armi vi erano inoltre tutti gli ebrei che aderirono mettendo a disposizione il proprio intelletto, la propria personalità e le proprie disponibilità economiche. Le parole d’ordine erano uguaglianza, universalità, progresso, libertà e fratellanza. Accanto a chi sfoderava la spada c’era poi chi imbracciava invece la penna: una gruppo di giornalisti ebrei, che non scrivevano nelle riviste ebraiche, ma sulla stampa liberale e di scrittori e poeti come Giuseppe Revere. Anche la fede riveste un ruolo essenziale, in particolare alcuni rabbini provenienti dai collegi influenzarono con i loro sermoni i loro correligionari, portando avanti tematiche di natura politica e sociale come l’emancipazione. Elemento negativo identificabile in questa fase storica cruciale è la paura delle vecchie generazioni che le nuove abbandonassero le tradizioni, timore che si concretizzerà poi nell’indifferentismo religioso, l’allontanamento dei giovani da qualsivoglia pratica cultuale.
Sulle figure del mazzinianesimo ebraico tra Ottocento e Novecento ha parlato invece lo storico Alberto Cavaglion analizzando le fonti principali che attestano i rapporti di Mazzini con la realtà ebraica. Tra queste una delle lettere dirette alla madre dove Mazzini, esule a Londra, racconta della famiglia ebraica che lo ospitava. Per descriverli utilizza l’espressione particolare “Fui ospite in quella famiglia di stolidi buoni dei quali vi ho raccontato il pranzo” un termine inusuale stolidi buoni che potrebbe essere considerato un chiasmo del precedente appellativo in uso: “perfidi ebrei”. Il primo a recuperare questa lettera e a farne oggetto di un’analisi approfondita fu Alessandro Levi che scrisse un articolo sulla rassegna mensile del 1931 intitolato “gli amici israeliti di Giuseppe Mazzini” dove diede notizia per la prima volta delle fonti concrete su cui si sarebbero dovuto fondare il discorso sull’eredità mazziniana nell’ebraismo italiano. Nonostante l’eredità di Mazzini abbia un risvolto negativo, come l’eredità di molti altri personaggi carismatici dell’800 sfruttati dalla propaganda fascista come Nietzsche o D’annunzio, Mazzini in sé non ebbe mai nessun pregiudizio contro gli ebrei mentre dalle parole pregiudiziali della madre riscontrabile nelle lettere di risposta, ci si rende conto di come venissero visti gli ebrei a causa di una non conoscenza dell’ebraismo largamente diffuso prima dell’emancipazione. Mazzini rimane comunque un enigma per l’ebraismo italiano. E’ difficile fingere di non scorgere le colpe degli epigoni che ne hanno dato una visione unilaterale fascista e ipernazionalista, ma è anche difficile non considerare il momento in cui Mazzini è stato un simbolo nei momenti di crisi, di abbandono di difficoltà politica.
Riguardo ai critici e ai nemici dell’emancipazione ebraica nel Risorgimento è poi intervenuto Simon Levis Sullam, Ricercatore dell’Università di Oxford. La madre di Mazzini, citata in precedenza per i suoi pregiudizi contro gli ebrei, non è altro che la rappresentazione di un sentire comune di una parte consistente della società italiana. Di certo gli ebrei hanno avuto un ruolo importante nel risorgimento, ma ciò non toglie che permanessero sospetti e pregiudizi spesso con una radice di tipo religioso, teologico. Anche in ambito laico è riscontrabile la poca conoscenza del mondo ebraico e la tendenza ad avere nei suoi confronti pensieri precostituiti rispetto al ruolo economico degli ebrei e alla loro presenza nella società italiana.
Dopo la pausa pranzo sono ripresi gli interventi, moderati, per la sessione pomeridiana, da Anna Vera Sullam. In questa seconda tranche si è cercato di analizzare alcuni casi particolari come nell’intervento di Maria del Bianco, professoressa di storia delle religioni all’Università di Udine, che ha dato un quadro di quella che è la storia delle scuole rabbiniche in Italia e ha sottolineato il ruolo delle istituzioni educative ebraiche nella promozione degli ideali di unità nazionale.
Proprio degli ideali che caratterizzano il processo di unificazione nazionale si farà portavoce Abraham Lattes, di cui Gadi Luzzatto Voghera, professore della Boston University di Padova, ha disegna un ampio profilo. Abraham Lattes nacque a Savigliano, un piccolo borgo tra Cuneo e Torino, nel 1809. Il giovane Abraham sarà fra i primi studenti del collegio rabbinico di Padova e dal 1839 verrà chiamato a ricoprire la cattedra rabbinica di Venezia per poi trattenersi in Laguna per quasi mezzo secolo. Un rabbino di appena trent’anni capace di impersonare con la sua azione e con una personalità piuttosto spiccata il nuovo ruolo di rabbino del secolo. Durante la repubblica veneta di Manin fu molto attivo spronando i cittadini ebrei a partecipare alla sua difesa. In una sentenza rabbinica da lui redatta troviamo il richiamo esplicito al fondamentale compito di difendere la patria che viene assunto come compito religioso andando a dispensare coloro che avrebbero esercitato tale compito anche durante lo Shabbat.
In chiusura della giornata di studio Bruno di Porto, storico italiano e professore di Storia del Giornalismo e Storia Contemporanea all’Università di Pisa, ha delineato un quadro esemplificativo di Isacco Artom, diplomatico al servizio di Camillo Benso di Cavour. Isacco Artom fu il primo ebreo d’Europa ad occupare un alto incarico diplomatico al di fuori del proprio Paese. Nato da una delle famiglie ebraiche più importanti della città di Asti, intraprese gli studi universitari a Pisa dove venne a contatto con l’ambiente risorgimentale. Per anni collaborò con le testate giornalistiche dell'”Opinione” e del “Crepuscolo”. Dopo la sua assunzione presso il ministero degli Esteri, venne chiamato da Cavour, come uomo di fiducia presso la sua segreteria, divenendo a tutti gli effetti il prototipo dell’integrazione ebraica nell’Italia risorgimentale e unita.
Michael Calimani