Maurizio Cattelan e la studiata provocazione

La questione dell’immagine realizzata da Maurizio Cattelan – raffigurante un Hitler genuflesso in preghiera -, inizialmente scelta per pubblicizzare sui muri di Milano la mostra dell’artista inauguratasi lo scorso 24 settembre, ma poi ritirata per le rimostranze sollevata dalla comunità ebraica, e diventata, a quanto pare, un cimelio per collezionisti, solleva diverse considerazioni.
Innanzitutto, un tempi di ripugnanti manifestazioni di negazionismo e odio antisemita, di fronte a un’operazione artistica di ben altro livello, realizzata da un creatore di nome e prestigio internazionale, occorre innanzitutto marcare le evidenti differenze, riconoscendo che l’opera in questione si colloca esclusivamente sul piano dell’arte, della suggestione emotiva e della metafora visiva. E se, pertanto, può suscitare turbamento o sconcerto, tali reazioni vengono sollecitate, appunto, sul peculiare terreno del linguaggio artistico, che, quantunque aspro o urticante, appare comunque lontano anni luce da quello delle volgari provocazioni razziste di cui, purtroppo, è tanto piena la cronaca contemporanea.
Quante volte, nei millenni, l’arte è stata trasgressiva, provocatoria – e, in quanto tale, oggetto di vari tentativi di censura o rimozione da parte dell’opinione pubblica benpensante o del potere costituito -, dalla pittura erotica pompeiana ai nudi di Michelangelo, da Caravaggio a Duchamp, da Fontana a Piero Manzoni? Con buone ragioni, perciò, c’è chi sostiene che, per evitare di apparire arretrati, benpensanti, o scherani del potere, bisognerebbe sempre guardarsi dal cercare di imporre al linguaggio artistico qualsiasi forma di limitazione di carattere etico o educativo, in quanto l’arte o è libera o non è. Tale ragionamento, per quanto valido, lascia tuttavia aperte due domande, non di poco conto: può esistere, in una società articolata e complessa, una libertà ‘assoluta’, una totale ‘irresponsabilità’? E, ammesso che l’arte, e solo essa, possa godere di questo particolare, elevato privilegio, chi decide chi debba essere, in quanto artista – e “nell’esercizio delle sue funzioni” -, a poterlo reclamare? Se Cattelan può raffigurare Hitler, perché non lo può fare anche un neonazista? O, magari, un “neonazista artista”? E siamo sicuri, poi, che tutte le provocazioni artistiche a cui abbiamo assistito, nell’arco del Novecento, meritassero rispetto o ammirazione? Nessuno ricorda quando, alla Biennale di Venezia, una quarantina d’anni fa, fu ‘esposto’, come opera d’arte, un ragazzo down sordo-cieco? O quando, durante una rappresentazione teatrale, ogni sera un cavallo stramazzava a terra sul palcoscenico, abbattuto da un colpo di pistola alla tempia? O quando – ed è cronaca molto recente – un sedicente artista ‘esibiva’ un cane agonizzante, condannato a morire “in diretta” di fame e di sete, innanzi a un pubblico a cui era impedito di intervenire in alcun modo? Insomma, diciamolo: in nome dell’arte, col pretesto dell’arte, si sono fatte passare spesso le peggiori immondizie, che hanno fatto parlare di sé non certo per meriti artistici, ma esclusivamente in quanto “schifezze snob”.
Cattelan resta un artista serio, ma non c’è dubbio che molte delle sue opere hanno attratto l’attenzione soltanto, o principalmente, per il loro carattere ‘scorretto’, sgradevole e sconveniente: come quando, per esempio, volle appendere a un albero, con dei cappi, alcuni manichini in sembianze umane, che, sembrando dei veri uomini impiccati, turbavano e spaventavano i passanti, specialmente i bambini, tanto da suscitare la prevedibile protesta dei genitori (ovviamente, ‘benpensanti’).
Quella ‘scultura’, in realtà, prima che provocatoria, era scontata, inutile, un semplice scherzo di cattivo gusto. Così come banale e di cattivo gusto appare la foto dell’Hitler orante, di cui la storia dell’arte farebbe tranquillamente a meno, e che non sarebbe mai salita agli onori della cronaca, se non per l’unico, discutibile merito della solita, studiata provocazione.

Francesco Lucrezi, storico