Il delicato equilibrio della rappresentanza

A pochi giorni dal Congresso chiamato a discutere e votare sulle proposte di modifica dello Statuto, è motivo di soddisfazione constatare che, grazie tra l’altro agli interventi pubblicati su Pagine Ebraiche, gli snodi di maggior rilievo della riforma sono ormai noti e, anche quando non condivisi, sono stati certamente bene assimilati. Le proposte di modifica sono assai numerose in quanto toccano molti articoli, ma la maggior parte si limitano ad una mera revisione tecnico-giuridica o sono dettate da esigenze di uniformare la terminologia, senza incidere sul contenuto delle norme. Seguendo l’ordine degli articoli dello Statuto, i nodi centrali della riforma riguardano il sistema elettorale delle due maggiori Comunità, per le quali viene proposto il voto per liste con premio di maggioranza per quella che superi il 45 per cento dei voti. Ma in definitiva per tutte le Comunità, e quindi anche per Milano e Roma, si stabilisce (art. 17, comma 6), che il regolamento interno “può prevedere un diverso sistema elettorale, nel rispetto della tutela delle minoranze, della libertà di scelta e di autodeterminazione degli elettori e delle esigenze di funzionalità del Consiglio”. L’ultima parola spetta dunque alla singola Comunità, che è libera di adottare un autonomo regolamento elettorale.
Assai rilevanti sono poi i temi relativi alla durata dell’incarico di rabbino capo e, più in generale, al ruolo e alle funzioni dell’Assemblea e della Consulta rabbinica. Devo dire che mi sono trovato in serio disagio nell’affrontare questi temi senza conoscere le posizioni dei rabbini e dei loro organi rappresentativi, come se fossimo separati da un muro di incomunicabilità. Spero che questo riserbo, per non parlare di disinteresse – nessun rabbino ha preso parte ai lavori di riforma – venga meno in prossimità o durante il Congresso e che i delegati non si trovino costretti a decidere unilateralmente.
Ma veniamo al tema di fondo, quello per cui in ultima analisi si è mossa la complessa macchina della riforma, e cioè il nuovo assetto dei rapporti tra le Comunità e gli organi centrali di governo dell’Unione. Le critiche nei confronti dell’attuale Congresso sono largamente condivise, proprio perchè tale organo, pur essendo ampiamente rappresentativo dell’ebraismo italiano, non assicura un collegamento stabile e continuativo tra il corpo elettorale, i Consigli delle Comunità e la Giunta dell’Unione; la sua funzione rappresentativa si consuma e si esaurisce una volta ogni quattro anni con l’elezione del Consiglio, chiamato poi a eleggere la Giunta. Sulla base di quest’indiscussa constatazione, la Commissione ha proposto di sostituire il Congresso con un Consiglio permanente, formato da 24 componenti di diritto (i presidenti delle 21 Comunità e i tre rabbini della Consulta rabbinica) e 35 membri eletti a suffragio universale e diretto in cinque circoscrizioni elettorali. Il Consiglio, che dura in carica quattro anni e di cui si prevede la riunione ogni tre-quattro mesi, dovrebbe porre rimedio ai limiti di un Congresso sì rappresentativo, ma non in grado di esercitare alcuna funzione di controllo e di stimolo nei confronti della Giunta, e di un Consiglio che, in quanto eletto in secondo grado dal Congresso, non è chiamato a rispondere delle proprie scelte alle Comunità e al corpo elettorale. Non vorrei comunque demonizzare il Congresso, che ha svolto e può continuare a svolgere una funzione positiva. Svincolato dal compito di designare gli organi di governo dell’Unione, potrebbe trasformarsi in una sorta di Stati Generali, convocati ogni quattro anni dal Consiglio per dibattere i problemi di fondo dell’ebraismo italiano, sulla base di un sistema elettorale idoneo a garantire la più ampia rappresentatività di tutte le sue componenti.
Il modello del nuovo Consiglio ha sollevato timori e preoccupazioni, spesso contrastanti tra loro. Le piccole e medie Comunità lamentano di essere meno rappresentate, ma in realtà nessuno degli attuali 28 loro rappresentanti al Congresso ha alcuna garanzia di essere presente nel Consiglio e nella Giunta, mentre nel nuovo Consiglio a tali Comunità sarebbe garantita la presenza di 25 rappresentanti (19 di diritto e 6 eletti); quanto alla Giunta, l’art. 44, comma 2, stabilisce opportunamente che i componenti debbono appartenere ad almeno 4 Comunità diverse. Specularmente è stato avanzato il timore (ad esempio da Riccardo Pacifici sull’ultimo numero di Pagine Ebraiche) che le due maggiori Comunità, e soprattutto Roma, siano sottorappresentate nel Consiglio, il che sarebbe “un fatto inaccettabile e senza alcun logico senso della realtà”. A me sembra che il governo degli ebrei italiani non debba essere sorretto da logiche basate sulla forza dei numeri; siamo in pochi, la maggior ricchezza dell’ebraismo italiano sta proprio nella sua eccezionale distribuzione capillare sul territorio; attribuire una consistente rappresentatività alle piccole e medie comunità è un doveroso riconoscimento delle radici storiche della nostra sopravvivenza.
Quanto alle norme transitorie, sono state prospettate due soluzioni. La prima privilegia l’immediata entrata in vigore del nuovo Consiglio, attribuendo in via straordinaria e eccezionale ai delegati del Congresso il potere di eleggerne i componenti, ma sacrifica – sia pure per una sola volta – il principio della loro elezione a suffragio universale e diretto. Il Consiglio così designato sarebbe comunque destinato a rimanere in carica solo due anni.
La seconda rinvia di due anni la nomina del nuovo Consiglio; nel frattempo il Congresso eleggerebbe, secondo la disciplina del vecchio Statuto, un Consiglio che decadrebbe dopo due anni. Impossibile dire in astratto quale sia la soluzione migliore; piuttosto, è importante scegliere il sistema che assicuri in concreto l’effettiva continuità degli organi di governo dell’Unione, rendendo meno traumatico il trapasso tra la vecchia e la nuova disciplina.
Guido Neppi Modona, Commissione per la riforma dello Statuto, Pagine Ebraiche, dicembre 2010