Quello spirito che intercetta il domani

Si sente in giro un certo trionfalismo: mai come in questi tempi l’ebraismo e la cultura ebraica sono al centro di un interesse diffuso. È vero. Ma dire che ciò sia prova di interesse, e magari anche di simpatia, per gli ebrei, comporta un salto logico avventato. Chi può negare che la cultura greca sia da secoli circondata da un interesse e un’ammirazione immensi, che il tempo non consuma? Ma di qui a dire che da ciò derivi interesse e simpatia per i greci contemporanei ne corre… Naturalmente, il parallelismo è grossolano: gli ebrei di oggi hanno una relazione con la loro tradizione di gran lunga più forte. A condizione di precisare che la forza di questa relazione è indiscutibile se ci si riferisce alla religione, assai meno se ci si riferisce alla cultura, anche a quella religiosa. Anzi, per quanto riguarda queste ultime, spesso si ha l’impressione che ad esse siano più interessati i non ebrei; mentre gli ebrei fanno la figura dei custodi di un museo cui guardano molto distrattamente. Quindi, se parliamo di cultura, malgrado le apparenze, emerge il fenomeno di ebrei senza ebraismo e di un ebraismo senza ebrei. Il Congresso dell’UCEI e i suoi delegati dovrebbero occuparsi di questo tema. Non è una faccenda astrusa, riguarda il legame con le proprie radici: se viene meno si scolla tutto. Non ci si può eccitare solo per vantare che Einstein, Freud e Marx erano ebrei, o per dare l’iscrizione onoraria alla Comunità a personalità che mangiano maiale a volontà solo perché hanno un’ascendenza ebraica e poi ignorare chi fossero Elia Benamozegh o Mosé Mendelssohn. Ma, si dirà, c’è il legame religioso, l’osservanza delle mizvot, che è ora più diffusa di prima. In primo luogo, un’osservanza che metta in secondo piano il legame spirituale e culturale alla lunga è debole. Inoltre, la rivendicazione del rafforzamento dell’ortodossia si accompagna spesso a un rimpianto per i bei tempi in cui la comunità viveva dietro la siepe della Torah. S’intravede una nostalgia per il ghetto che metteva al riparo dalle contaminazioni esterne. Si lamenta il fatto che l’apertura del mondo agli ebrei abbia distrutto in poco tempo legami secolari. Un simile desiderio di chiusura è triste e impresentabile: cosa dovrebbe pensare “il mondo” sentendo gli ebrei lamentarsi della sua “apertura”? Peggio: è perdente. Non vi è più alcuna possibilità di rialzare la siepe della Torah. Vivere nel mondo non può essere considerato una condanna. Anzi, la consistenza del rapporto con l’ebraismo si verificherà proprio nella capacità di mantenerlo vivo all’aria aperta. Pertanto, un tema centrale deve essere quello del rapporto tra gli ebrei e gli “altri”, a partire da quello centrale dei matrimoni misti. Sono state un pessimo segnale certe reazioni isteriche nei confronti del presidente della Comunità di Milano quando ha detto che l’endogamia non salverà l’ebraismo. I problemi si discutono a viso aperto. Quando ci si ritrae dalla discussione lanciando anatemi si è già mezzi morti. Problema complesso è quello delle conversioni dei minori. È innegabile che esso si incroci con la necessità di rispettare i principi della tradizione. Sarebbe già un enorme passo in avanti considerare la questione sotto un profilo di apertura, di accoglienza, nei termini di un percorso da fare a braccia aperte. Invece, prevale un atteggiamento di occhiuta diffidenza, di arcigna ripulsa. Sì, certo, si ripetono le parole “gioia” e “amore”, ma è una litania vuota. Perché poi (su Pagine Ebraiche) una voce autorevole spiega che “l’atto della conversione trasforma il convertito in un neonato, un nuovo genere di bambino senza legami con i suoi genitori biologici”, che sarà “adottato” da un’altra famiglia ortodossa. Quale persona dotata di un minimo di umanità avrebbe il coraggio di dire a una madre, oltretutto quando costei abbia accettato in pieno l’idea dell’educazione ebraica di “suo” figlio, che esso non è più tale, è un essere senza più legami con lei, “genitore biologico”? Tutto ciò è semplicemente orribile e inumano. Un ebraismo che trasmetta di sé una simile immagine è moralmente e spiritualmente morto. Un Congresso che eludesse questi temi, o li trattasse in modo diplomatico, non renderebbe un buon servizio all’ebraismo italiano. Poi vi sono molti altri temi da affrontare: dall’antisemitismo al dialogo ebraico- cristiano. Ma, a parte il fatto che non posso rubare altro spazio, essi dipendono largamente da quello generale, che definirei la scelta di uno “spirito di apertura”. L’antisemitismo non si contrasta efficacemente se ci si chiude in sé stessi. Il dialogo va affrontato con apertura, nella consapevolezza che secoli di una storia tanto drammatica non si cancellano in pochi decenni. Occorre pazienza, disponibilità, saper guardare agli aspetti positivi perché solo valorizzando fino in fondo questi sarà possibile sconfiggere quelli negativi.

Giorgio Israel, matematico, Pagine Ebraiche, dicembre 2010