Dalla brigata ebraica alla bioetica. Il cammino di Hans Jonas

Aveva solo quindici anni Hans Jonas quando, contro il volere del padre, aderì alla causa sionista. Era il 1918. La guerra era finita, ma la Germania si avviava verso una delle fasi più instabili della sua storia. Malgrado l’assimilazione, l’antisemitismo era abituale. Il «senso di diversità», insieme alla coscienza della dignità e all’orgoglio di resistere lo convinsero presto della necessità di uno Stato ebraico. La «notte della galut», come insegnavano i profeti e come sosteneva in quegli anni Martin Buber, doveva finire. Senza mai smettere di prepararsi all’emigrazione (partecipando anche a programmi di formazione agricola), Jonas seguì il corso di studi ebraici a Berlino e frequentò le lezioni di filosofia laureandosi con Martin Heidegger a Marburgo nel 1928. La prima parte della sua prima opera «Gnosi e spirito tardo antico» uscì nel 1934, quando Jonas aveva già abbandonato la Germania; arrivò a Haifa nel 1935.
Anche in Eretz Israel la vita di Jonas proseguì tra gli studi filosofici e l’impegno attivo: partecipò alla Haganà e fu membro del Brit Shalom. Significativo fu l’appello lanciato nel 1939 agli ebrei emigrati affinché si arruolassero nelle fila degli alleati per combattere contro la Germania nazista: «questa è la nostra ora, questa è la nostra guerra». Già prima della conferenza di Wannsee, Jonas intuì che per il nazismo gli ebrei erano il «nemico metafisico» e che si sarebbe presto giunti al totale annientamento. Fu tra i pochi a non farsi illusioni e parlò di un nuovo «bellum judaicum»: una guerra non solo per il diritto all’esistenza del popolo ebraico, ma anche per sconfiggere il nemico del mondo che minava i fondamenti dell’umanità. Per quasi sette anni Jonas, lontano dalla moglie Lore e dai suoi libri, prestò sevizio nella «Brigata ebraica» dell’esercito alleato e, dopo aver combattuto in Italia nel 1943, entrò vincitore in Germania nel 1945.
Tanto più dolorosa fu la notizia della morte della madre uccisa ad Auschwitz. Da questa ferita, mai rimarginata, scaturì molti anni dopo, nel 1984, la sua riflessione «Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica», un modo non per negare l’esistenza di Dio, ma per ripensarne la Presenza attraverso le fonti qabbalistiche. Nel creare il mondo Dio si è ritirato e ha rinunciato al potere fidando nella responsabilità di un essere umano autonomo. Da allora accompagna la Storia «trattenendo il respiro». Se a Auschwitz restò muto, nulla può impedire di credere, di fronte ai bambini gasati, «che il pianto fosse nei cieli al di sopra della devastazione e della profanazione dell’immagine umana, che un gemito rispondesse».
Combattere il nazismo con le armi della filosofia significò per Jonas, negli anni del dopoguerra e della sua vita accademica trascorsa in gran parte in America, smascherarne il paganesimo nichilista e l’indifferenza etica. A ciò Jonas oppose la «responsabilità» umana verso la vita nel mondo che non è un «luogo ostile» ma, molto ebraicamente, il dono della «creazione». Delineò così una filosofia della natura, affrontando – e fu anche in questo un pioniere – temi di bioetica ed etica medica. La dominazione umana del mondo, che non rispetta la «santità della vita», è per Jonas la grande sfida della civiltà tecnologica. La scienza moderna ha eliminato ogni rispetto del mistero; la nuova fede è il credo darwinista: «abbiate successo nella lotta per l’esistenza!». Uscire dal sogno dell’immortalità, latente nelle biotecnologie, è possibile attraverso l’ebraismo che «impone limiti» e, contro l’uso illimitato del potere tecnologico, insegna la dignità di ogni singola vita. Contrario a ogni utopia, anche politica, Jonas non dimentica tuttavia il futuro; ma il domani si prepara nell’oggi di un’etica che si assume la responsabilità di lasciare alle generazioni future un pianeta ancora vivibile.
Si comprende perché Jonas rivendicò così spesso, fino alla morte, nel 1993, il suo legame filosofico, ma anche esistenziale, con la tradizione ebraica. «Potrei immaginarmi – scrive nelle ultime pagine delle Memorie – di rivedere il mio sionismo, ma non di sciogliermi dal berit, dall’Alleanza tra Dio e Israele». Ancora troppo trascurato, anche per la complessità della sua posizione, Jonas è stato riletto alla luce della tradizione ebraica soprattutto dall’ultima generazione dei filosofi israeliani da Yotam Hotam a Ron Margolin.

Anticipazione dell’intervento per il convegno «Hans Jonas – filosofo della responsabilità» che si terrà il 12 dicembre a Genova dal Centro Primo Levi e dall’Associazione di cultura ebraica Hans Jonas.

Donatella di Cesare, filosofa