Mai sottovalutare il lettore (Umberto Eco e il «copiaincolla»)

Non possono essere definiti licenze poetiche, o vezzi stilistici, modalità espressive bizzarre ma legittime, perché non lo sono. Meglio chiamare le cose con il loro nome, ripetono a più riprese Howard Mittelmark e Sandra Newman, gli autori di Come non scrivere un romanzo (Milano, Corbaccio, 2010, pagine 224, euro 18,60); se c’è qualcosa che rallenta il ritmo di un racconto, rende scialbo un personaggio, rende stonato un incipit o una conclusione, toglie gusto e mordente alle pagine, questo qualcosa si chiama «errore narrativo». Spesso solo oscuramente percepito come tale da chi scrive, ma immediatamente registrato come tale da chi legge, chiosano con sottile perfidia Mittelmark e Newman nell’introduzione.
Davvero utili e divertenti gli esempi di scrittura infelice e di cose da non fare mai se si vuole evitare di essere cestinati (regola che dovrebbe valere per gli esordienti come per gli scrittori affermati, ma purtroppo anche nella repubblica delle lettere spesso ci sono cittadini «più uguali degli altri»): da chi, non sapendo descrivere una scena, si limita a un elenco del telefono di azioni, a chi si crede Proust o Gadda, a chi plagia inconsapevolmente film o libri più o meno famosi.
Tra i 200 esempi di errori da matita rossa e blu elencati con un pizzico di sadismo dai due editor non c’è il «copiaincolla» non dichiarato, perché troppo ovvio per meritare una menzione; nonostante questo, la lettura di Come non scrivere un romanzo può comunque fornire spunti interessanti alla recente riflessione sul plagio (o sulla «difficile arte della copiatura», che dir si voglia) nata dalla lettera a «La Stampa» di una lettrice, la signora Pina Pagano, che ha individuato tra le pagine de Il cimitero di Praga di Umberto Eco brani tratti dal romanzo Da Quarto al Volturno di Giuseppe Cesare Abba.
L’errore grave, da evitare sempre e comunque, senza se e senza ma — si ripete più volte nel libro di Howard Mittelmark e Sandra Newman — è sottovalutare il lettore, dare implicitamente per scontato che sia meno attrezzato culturalmente, meno perspicace, in una parola, meno «intelligente» di noi.
«Il personaggio si chiama Giuseppe Cesare Abba e dice quello che ha scritto» ha risposto Eco alle accuse. Chi ribatte che le cose non stanno esattamente così («a pagina 153 non è certo Abba a parlare, ma il protagonista del romanzo, cioè Simonini» insiste la signora Pagano) rischia di fare la figura del pedante; la passione dell’autore per il centone, il florilegio e il pastiche più o meno mascherato non è una novità, come l’assunto che tutto è falsificabile e i «segni» stessi della semiotica servono per mentire.
Lo stesso celeberrimo Il nome della rosa ne è un esempio; già negli anni Novanta, all’università di Firenze un docente di filosofia medievale era solito assegnare agli studenti (come può testimoniare chi scrive) il compito a casa di rintracciare le fonti del libro, un centone di testi medievali riassemblati sotto forma di bestseller, innescando un’appassionante (e didatticamente efficacissima) caccia all’autore copiato, tradotto, parafrasato, parodiato.
Probabilmente è per questo che il professor Eco ha evitato di citare le sue fonti (anche in carattere 8 in una nota sperduta a piè di pagina, o in una post fazione relegata dopo l’indice) ne Il cimitero di Praga. L’apparente trascuratezza nasconde una preoccupazione didattica: non vuole privare i colleghi docenti universitari di un utile strumento di lavoro e gli studenti del gusto di scoprire da soli le tessere del mosaico del principe dei falsari Simonini.

Silvia Guidi, Osservatore romano, 23 dicembre 2010