Rosenzweig e Levinas, un ricordo

Il 25 dicembre, giorno di Natale, è anche la ricorrenza, rispettivamente, della nascita e della morte di due tra i più grandi pensatori che il popolo ebraico abbia donato all’umanità: Franz Rosenzweig, nato a Kassel nel 1886, ed Emmanuel Lévinas, scomparso a Parigi nel 1995. Di entrambi, si può dire che, oltre a dare uno straordinario apporto alla comprensione del mondo moderno, e alla peculiare posizione in esso occupata dall’identità ebraica, hanno contribuito, come pochi altri, a ‘creare’ l’idea di modernità, a costruire, sulle rovine del vecchio mondo, nuovi orizzonti di senso.
Pur essendo separate, le loro vite, solo da pochi anni (essendo Rosenzweig morto nel 1929, quando Lévinas era già ventiquattrenne), il pensiero dei due filosofi sembra diviso da un oceano: dall’abisso della Shoah e dalla nascita dello Stato di Israele, dal tentativo di completa eliminazione della presenza ebraica dalla storia e dall’orgoglioso riaffacciarsi di tale presenza, in nuove vesti, nella famiglia delle nazioni. Eppure, pur non avendo Rosenzweig assistito a tali eventi, le sue pagine si rivelano insostituibili per una loro interpretazione: basti pensare alle parole de La stella della redenzione ove si legge che “il giudaismo, unico al mondo, si conserva per sottrazione, per diminuzione mediante la formazione di sempre nuovi resti… Esso separa continuamente da sé ciò che non è giudaico per suscitare in sé sempre nuovi resti di quanto è originariamente giudaico. Esso costantemente si adatta all’esterno, per potersi separare sempre di più all’interno. In Israele non c’è alcun gruppo, alcuna tendenza, quasi neppure un singolo individuo che non consideri il proprio modo di disfarsi di ciò che è accessorio per mantenere intatto il resto, come l’unico modo vero e che quindi non consideri sé stesso il vero ‘resto d’Israele’”. Parole che acquistano nuovi, inquietanti significati dopo le atroci ‘sottrazioni’ inferte al popolo d’Israele nel secolo scorso; ma che offrono anche nuove chiavi interpretative per la prodigiosa palingenesi dell’ebraismo operata col ritorno degli esuli nella terra dei padri.
Quanto a Lévinas, nessuno meglio di lui ha saputo esprimere il senso della particolarità e dell’universalità del popolo mosaico, il suo essere perennemente in bilico tra ‘dentro’ e ‘fuori’, la forza e la condanna di una funzione sacerdotale e profetica che è anche “eterna sospensione sull’orlo del baratro”. Una condizione che – come spiegato in Nomi propri – è insieme privilegio e sventura, e attesta, “con un testamento antichissimo”, la missione metastorica di Israele, “la sua origine al di qua delle civiltà. Civiltà che questa morale rende possibili, chiama, suscita, saluta e benedice, mentre essa, dal canto suo, viene saggiata e giustificata soltanto se può essere contenuta nella fragilità della coscienza, nei ‘quattro cubiti della halachà, in questa dimora precaria e divina”.

Francesco Lucrezi, storico