L’impossibile traduzione del Talmud
È di questi giorni la polemica sulla traduzione del Talmud in italiano. Una polemica che proviene da aree di malevolenza antiebraica, ma che ha purtroppo fondate ragioni di essere. E ciò per due motivi essenziali, l’uno culturale, l’altro etico.
Il motivo culturale. Tradurre il Talmud è impossibile quanto tradurre la Torah. È impossibile per infiniti motivi: perché non vi sono perfette corrispondenze linguistiche (lessicali, sintattiche, fraseologiche, idiomatiche) fra l’ebraico e una qualsiasi altra lingua; perché è cambiato il contesto di riferimento culturale e ideologico; perché i fruitori di oggi sono radicalmente diversi dai fruitori originali dei testi, e non sono più in sintonia con quel genere di testualità. Che la traduzione sia impossibile lo dimostrano le mille carenze degli sforzi compiuti da Eugene Nida, pioniere della scienza della traduzione biblica. Sia che lo si traduca letteralmente o che lo si parafrasi o che lo si renda per equivalenze culturali, il testo si rifiuterà sempre di concedersi alla trasposizione in un’altra lingua. Pensare di leggersi il Talmud da soli, senza un Maestro (di lingua, di cultura e di vita) è velleitario, e semplicemente folle; il testo lo si può solo leggere con accanto un Maestro che ti avvii al suo intraducibile senso.
Il motivo etico. Anche ammesso ci si volesse accingere all’arduo compito della traduzione, è d’obbligo chiedersi a quanta cultura e a quanta etica ebraica siamo disposti a rinunciare pur di tradurre il testo che quella cultura e quell’etica ci insegna. La polemica di questi giorni lascia perplessi. Li abbiamo chiesti noi i sostanziosi fondi statali necessari all’impresa o ci sono stati offerti? Da chi e perché? È ebreo chi dice tefillah tre volte al giorno e chi tutela l’immagine dell’ebraismo celebrando la giornata della memoria e quella della cultura ebraica una volta all’anno, ma essere ebrei forse significa anche aderire a certi principi etici, fra questi quello del disinteresse. Nessuno può credere che il consenso dell’ebreo o il suo silenzio si possano ottenere attraverso operazioni come quella della traduzione del Talmud. Ne va dell’immagine stessa del Talmud, oltre che della dignità del nostro ebraismo.
In un momento come questo, forse la politica italiana avrebbe bisogno di destinare ad altri fini, sociali e umanitari, i propri finanziamenti. E noi ebrei a questo dovremmo incoraggiare quella politica.
Quanto alla tutela dello studio talmudico in Italia, perché UCEI e rabbinato non pensano di avviare un progetto culturale su scala nazionale, per un anno di studio di una stessa Massechet in tutte le nostre comunità? Questo impegno farebbe davvero onore al nostro ebraismo e alla nostra cultura.
Dario Calimani