…Unità

Si avviano le celebrazioni del 150° anniversario dell’unità nazionale e veniamo coinvolti in iniziative pubbliche di ogni tipo, commemorative e di studio. La sfida è nuovamente lanciata a chi sul territorio
rappresenta le comunità ebraiche e si deve barcamenare fra retorica risorgimentale e realtà presente. I testi su cui documentarsi non mancano e sono in progettazione buone e interessanti iniziative di divulgazione (mostre, libri, numeri di riviste) su come gli ebrei hanno partecipato al processo di nazionalizzazione della società italiana. A me pare che, al di là dei troppi impegni pubblici cui saremo invitati a presenziare, questa sia una buona occasione per riflettere sulle nostre plurime identità (politica, etnica, geografica, religiosa, di genere). Propongo qualche punto da cui partire, senza pretesa di essere esaustivo:
1) Non credo sia corretto affermare che sia troppo debole e indefinita l’espressione “ebrei italiani”, a volte presentata nella forma sarcastica di “ebrei all’italiana”. Esiste una secolare e storicamente riconoscibile tradizione che mi pare ingiusto disconoscere, che fa dell’essere ebrei “in Italia” un’esperienza specifica della quale si può a ragione andare orgogliosi: un particolare rapporto con la civiltà italiana (cultura, lingua, tradizione gastronomica, mentalità) sono parte integrante della nostra storia che non merita di essere rinnegata.
2) Gli ebrei hanno salutato generalmente con gioia e partecipazione l’emancipazione civile ottocentesca (ricordiamolo, però, concessa sempre dall’alto), e ne hanno constatato con amarezza il repentino fallimento nel 1938 e poi con maggior durezza hanno affrontato la prova della persecuzione dopo il 1943: questi fatti non possono non aver inciso nel loro modo di essere oggi da un lato “comunità di minoranza”, e nel contempo parte di una “comunità nazionale allargata”. In questa prospettiva l’interrogarsi oggi sul significato di appartenenza nazionale e su cosa intendiamo quando ragioniamo attorno a un nuovo patto di cittadinanza non sarà inutile. Sicuramente porterà a risposte diverse da quella proposta da Arnaldo Momigliano che ancora nel 1933 affermava che “la formazione della coscienza nazionale italiana degli ebrei è parallela alla formazione della coscienza nazionale nei piemontesi o nei napoletani o nei siciliani: è un momento dello stesso processo e vale a caratterizzarlo”.
3) La demografia ci dice che gli ebrei del secondo dopoguerra in Italia sono diversi da quelli del 1861 o del 1945: in decrescita quelli italiani, numerosi quelli immigrati dal bacino del Mediterraneo (Libia, Egitto, Turchia, Libano e in seguito dalla Persia). A lungo ufficialmente “apolidi”, sono tutti portatori di esperienze storiche spesso dure, di sradicamento e spaesamento, e hanno vissuto in Italia la stessa sorte fatta di diffidenza e di relativamente non amichevole accoglienza che troppo spesso questo paese riserva agli immigrati. Soprattutto, sono figli di un vissuto differente: ragionare insieme della memoria del Risorgimento, della Resistenza antifascista, a volte della stessa Shoà può essere molto impegnativo e costituisce un terreno di sfida aperta per la costruzione di un’identità nazionale riconoscibile e, nuovamente, di un condivisibile concetto di cittadinanza.

Gadi Luzzatto Voghera, storico