…laburisti

Come il grande partito egemone della Democrazia Cristiana in Italia negli anni ’90, e in un certo senso come una “maionese impazzita” in cui gli ingredienti invece di fondersi si separano rendendo il prodotto immangiabile, il partito laburista israeliano con una repentina convulsione si è spezzato in tre o quattro schegge. E così è giunta al capolinea la più che centenaria e onorata storia del socialismo ebraico. Il gruppo centrista dei cinque di Ehud Barak rimane saldamente nel governo Netanyahu, e anzi migliora i propri incarichi istituzionali. Il gruppo della sinistra sociale dei quattro di Amir Perez rimane a malincuore nel partito dopo aver seriamente considerato la scissione, anticipato sui tempi dal ministro della difesa. Il gruppo dei tre ministri Ben Eliezer, Herzog, e Braverman, che da tempo annunciavano l’uscita dal governo, paga il prezzo più salato perché un conto è parlare di dimissioni, un altro è darle per davvero. E resta l’assertiva presenza mediatica di Shelly Yechimòvich che può sembrare una voce isolata ma forse rappresenta la sola persona politica in grado di fungere da collante e forza motrice di una nuova forza socialdemocratica. Nell’uscire dal partito Barak ha citato gli esempi di David Ben Gurion e di Moshé Dayan ma ha dimenticato che il primo si ritirò a Sdé Bokèr nel Neghev, dando un esempio di idealismo pionieristico ben diverso dalla sua lussuosa abitazione nel grattacielo di Tel Aviv con l’assistente domestica filippina senza permesso; e il secondo passò, sì, al campo politico rivale come ministro degli esteri del governo Begin, ma entro poco tempo riuscì a portare il presidente egiziano Anwar el-Sadat alla storica visita a Gerusalemme e alla Knesset e al trattato di pace. Con Barak alla difesa ma senza il contrappeso degli otto deputati laburisti ora all’opposizione, l’asse politico del governo Netanyahu si sposta decisamente a destra. La coalizione di governo, numericamente ridotta, appare più compatta ma aumenta grandemente la sua dipendenza dagli umori di Shas e di Liberman che peraltro propongono programmi sociali contrapposti e incompatibili. La debole mediazione di Bibi e la logica del potere mantengono in piedi una compagine che non riesce a risolvere gli incredibili (e unici al mondo) scioperi della diplomazia al ministero degli esteri e dei procuratori di stato nei tribunali. A rigor di logica le elezioni anticipate sembrerebbero inevitabili, a meno che non spunti entro breve tempo uno strabiliante successo di politica estera.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme